sabato 30 giugno 2012

Separazione: il giudice può imporre limiti all'educazione religiosa del figlio.



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Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito che i figli affidati ai genitori, a seguito della separazione degli stessi, non devono subire le influenze in ambito di credo religioso.
Il caso vede protagonisti una coppia di coniugi che ottenevano, al termine della loro relazione matrimoniale, l'affidamento condiviso del figlio.
Il bambino, regolarmente battezzato e di religione cattolica, viveva con la madre la quale nel corso degli anni si era convertita a un altro credo e, già in costanza di matrimonio, aveva più volte cercato di coinvolgere il figlio nella sua scelta.
Il Giudice , pur avendo affidato il figlio a entrambi i genitori, aveva però vietato alla donna di "indottrinare" il bambino imponendo alla stessa di non coinvolgerlo nella sua nuova scelta religiosa.
L'ex moglie però, ravvisando una violazione dei suoi diritti fondamentali, proponeva ricorso in appello sostenendo che i limiti imposti dal Giudice fossero eccessivi e illegittimi.
Le pretese non venivano accolte e la donna proponeva ricorso dinanzi ai Giudici di Piazza Cavour sostenendo che "il giudice (d’Appello) non possa [...] imporre precisi limiti ai contenuti del suo rapporto con il figlio ed alle forme della loro comunicazione ed interazione, comprimendo le prerogative materne in punto d’istruzione ed educazione della prole, discriminandola rispetto al padre (cattolico o agnostico), in ragione della sua diversa confessione religiosa, [...] e limitando il suo diritto di professare liberamente tale sua fede in presenza del minore che prevalentemente convive con lei”.
La Corte di Cassazione, con sentenza numero 9546 del 12 Giugno 2012, ha ribadito quanto affermato in secondo grado sostenendo che le tesi della donna non potevano essere accolte poichè , in virtù dell'art. 155 c.c.[1] il Giudice deve anteporre sempre l'interesse morale e materiale della prole in sede di separazione.
Il predetto articolo rappresenta uno degli elementi cardine del c.d. "affido condivido" introdotto dalla Legge  8 febbraio 2006, n.54
Nella motivazione gli Ermellini sostengono infatti che “l’art. 155 cod. civ., in tema di provvedimenti riguardo ai figli nella separazione personale dei coniugi, consente al giudice di fissare le modalità della loro presenza presso ciascun genitore e di adottare ogni altro provvedimento ad essi relativo, attenendosi al criterio fondamentale rappresentato dal superiore interesse della prole, che assume rilievo sistematico centrale nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 della Costituzione.
L’esercizio in concreto di tale potere, dunque, deve costituire espressione di conveniente protezione ( art. 31, comma 2 Cost.) del preminente diritto dei figli alla salute e ad una crescita serena ed equilibrata e può assumere anche profili contenitivi dei rubricati diritti e libertà fondamentali individuali, ove le relative esteriorizzazioni determinino conseguenze pregiudizievoli per la prole che vi presenzi, compromettendone la salute psico-fisica e lo sviluppo; tali conseguenze, infatti, oltre a legittimare le previste limitazioni ai richiamati diritti e libertà fondamentali contemplati in testi sovranazionali, implicano in ambito nazionale il non consentito superamento dei limiti di compatibilità con i pari diritti e libertà altrui e con i concorrenti doveri di genitore fissati nell’art 30, primo comma della Costituzione e nell’art. 147 del codice civile”.



[1] Art. 155.

Provvedimenti riguardo ai figli.
Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.
La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
4) le risorse economiche di entrambi i genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L'assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

Le clausole di regolazione del premio nei contratti di assicurazione.



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Il tema delle ormai sempre più diffuse “Clausole di regolazione del premio” necessita di un preliminare cenno circa le cc. dd. “condizioni generali di contratto” e il conseguente regime delle “clausole vessatorie”.
In particolare, le condizioni generali di contratto sono le clausole che uno dei contraenti (rectius, il predisponente) utilizza per regolare, uniformemente,  i propri rapporti contrattuali. Esse si contrappongono, quindi, a quelle clausole che, normalmente, sono, invece, frutto di specifiche trattative tra i contraenti.
Il suddetto fenomeno ha dato luogo ai c.d. contratti di massa o per adesione nei quali il contenuto dell’accordo viene unilateralmente predisposto dal contraente forte (in genere l’imprenditore) e trasfuso in contratti-tipo mediante l’utilizzo di moduli e formulari (art. 1342 cod.civ.), non lasciando, quindi, all’aderente alcun margine di negoziazione.
Ciò premesso, le condizioni generali di contratto sono disciplinate dall’articolo 1341 cod.civ. secondo il quale “…esse sono efficaci nei confronti dell’altro contraente solo se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”.
E tuttavia, la stessa normativa al 2° comma precisa che le clausole che stabiliscono condizioni particolarmente favorevoli per il contraente c.d. “forte”, non hanno effetto se non sono specificatamente approvate per iscritto da parte dell’altro contraente, c.d. “debole”.

La natura del contratto di parcheggio meccanizzato nel caso di ubicazione in prossimità di mezzi di trasporto pubblici



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La quaestio iuris da risolvere è da rinvenire nell’applicabilità o meno al contratto di parcheggio della disciplina sul deposito con conseguente responsabilità ex recepto del gestore.
Preliminarmente è necessario evidenziare che il contratto di parcheggio sia un contratto atipico in quanto non espressamente previsto e disciplinato dal nostro ordinamento, ed anche misto considerato che presenta elementi distintivi di due contratti tipici quali quello di locazione e quello di deposito.
I contratti misti, pertanto,  sono disciplinati dalle norme relative all’uno o all’altro tipo contrattuale se ed in quanto con esso compatibili.
In particolare, oggetto del contratto di parcheggio meccanizzato è la messa a disposizione di uno spazio insieme alla custodia del veicolo.
Ed invero, era orientamento giurisprudenziale consolidato quello secondo il quale per la disciplina del contratto di parcheggio occorresse fare riferimento alle norme sul contratto di deposito, con conseguente obbligo di custodia della cosa depositata ex art. 1766 cod.civ.
Ciò in quanto, l’offerta della prestazione di parcheggio, cui segue l’accettazione attraverso l’immissione del veicolo nell’area, ingenera l’affidamento che in esso sia compresa la custodia (Cass. n. 3863/2004, n.1957/2002).

martedì 26 giugno 2012

Le Sezioni unite sull’abuso di dipendenza economica (traccia concorso magistratura 2012)


Cassazione civile, Sezioni Unite, 25 novembre 2011, ordinanza n. 24906

di Roberto Malzone

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L'abuso di dipendenza economica di cui all'art. 9 della legge n. 192 del 1998 configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall'esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un'impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l'abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o tornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998. Poiché l'abuso in questione si concretizza nell'eccessivo squilibrio di diritti e obblighi tra le parti nell'ambito di "rapporti commerciali", esso presuppone che tali rapporti siano regolati da un contratto, tant'è che il comma terzo dell'art. 9 cit. statuisce la nullità del "patto che realizza l'abuso" di dipendenza economica. 

Con la sentenza sopracitata le SS.UU. affrontano il delicato tema dell’abuso di dipendenza economica nei contratti fra imprese, regolato dalla L. n. 192 del 1998. 
Le disciplina legislativa definisce come dipendenza economica la “situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare , nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per a parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”. 
L’abuso può consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose e discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. 
Secondo la pronuncia in commento, la disciplina sull’abuso dettata dall’art 9 della L.cit. rappresenta una fattispecie di applicazione generale, a prescindere da uno specifico rapporto di fornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi. 
Il patto che realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ai sensi dell’art. 9 comma 3 L.192/98. 
Inoltre, la Corte di Cassazione, già in precedenti pronunce, ha affermato ce la realizzazione dell’abuso consiste in una violazione dei principi di buona fede e di correttezza, così che espone l’abusante all’inefficacia dell’atto e del risarcimento del danno (Cass. 20106/2009). 

giovedì 21 giugno 2012

Danno morale da indebito pignoramento di Equitalia.


Cassazione civile, sez. III, 11 giugno 2012, n. 9445
di Roberto Malzone

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In tema di responsabilità civile e di richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, quando è prospettato un illecito, astrattamente riconducibile a fattispecie penalmente rilevanti, (come nella specie, nella quale il danneggiato assume come causa del danno il pignoramento mobiliare eseguito, per un credito accertato come inesistente, nonostante la espressa richiesta al Comune e al Concessionario di interruzione del procedimento per il recupero del credito, e in mancanza di risposta a tale richiesta per spiegarne le ragioni, ed è ipotizzabile la fattispecie di reato prevista dall'art. 328, secondo comma, cod. pen.) per il quale la risarcibilità del danno non patrimoniale è espressamente prevista dalla legge, ai sensi degli artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen., spetta al giudice accertare, incindenter tantum e secondo la legge penale, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, indipendentemente dalla norma penale cui l'attore riconduce la fattispecie; accertamento che è logicamente preliminare all'indagine sull'esistenza di un diritto leso di rilievo costituzionale (cui sia eventualmente ricollegabile il risarcimento del danno non patrimoniale, secondo l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità oramai consolidata) potendo quest'ultimo venire in rilievo solo dopo l'esclusione della configurabilità di un reato; accertamenti, entrambi, preliminari alla indagine in ordine alla sussistenza in concreto (alla prova) del pregiudizio patito dal titolare dell'interesse tutelato”.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte riconosce il diritto al risarcimento del danno morale derivante da un illegittimo pignoramento mobiliare per un credito accertato come inesistente.
In particolare, l’avv. R.S. ha convenuto in giudizio il Comune di Roma e il Monte dei Paschi di Siena Spa, quale concessionario del servizio di riscossione dei tributi, e successivamente sostituito da Equitalia, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale poiché aveva subito il pignoramento, presso il proprio studio legale, a causa di un debito relativo a sanzioni amministrative che il Tribunale di Roma aveva dichiarato non dovuto con sentenza del 6 febbraio 2001.

lunedì 18 giugno 2012

La violenza dopo la separazione è motivo di addebito!


Cassazione civile, sez. I, 4 giugno 2012, n. 8928.

di Fabrizia Gaia Postiglione

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Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che gli episodi di violenza subiti dal coniuge, dopo l'avvenuta separazione, rappresentano una valida motivazione per richiedere l'addebito della stessa.
La decisione predetta si riferisce a un caso che vede protagonisti due coniugi che, in primo grado dal Tribunale di Cagliari, non si vedevano riconoscere le  rispettive pretese di addebito.
La Corte di Appello, in secondo grado, sosteneva che solo le ragioni della moglie erano fondate dal momento che l'episodio di violenza dalla stessa subito, seppur avvenuto a seguito della separazione, rappresentava un palese indizio della personalità del coniuge.
Sussistevano quindi gli elementi necessari per richiedere l'addebito della separazione nei confronti del coniuge violento.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 8928/2012 accoglieva e confermava la siffatta tesi sostenendo che ogni qual volta è possibile dimostrare  un episodio di violenza successivo alla separazione, il Giudice può considerare vere anche le denunce di precedenti comportamenti analoghi avvenuti prima della stessa.
Gli Ermellini, con la predetta sentenza, hanno precisato che "a fronte della dimostrata condotta violenta del ricorrente, per altro reiterata nel tempo, correttamente è stata accolta la domanda di addebito proposta dalla F. , venendo in considerazione violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse, e da esonerare il giudice del merito, che abbia accertato siffatti comportamenti, dal dovere di comparare con essi, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze. Infatti tali gravi condotte lesive, traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner, sono insuscettibili di essere giustificate come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento"

IL TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA:
Presidente Luccioli - Relatore Campanile
Svolgimento del processo
1 - Con sentenza in data 13 ottobre 2008 il Tribunale di Cagliari pronunciava la separazione personale dei coniugi F.A. e G.R. , rigettando le domande di addebito da entrambi proposte e ponendo a carico del marito un assegno mensile di Euro 400,00 a titolo di contributo per il mantenimento della F.
1.1 - La Corte di appello di Cagliari, con la decisione indicata in epigrafe, accogliendo l’impugnazione proposta in via principale dalla F. , dichiarava che la separazione era addebitabile al G., in considerazione della condotta aggressiva e violenta tenuta nei confronti della moglie. Venivano a tal fine apprezzate le risultanze emergenti da una sentenza penale pronunciata in sede di appello dallo stesso Tribunale, a seguito di impugnazione per i soli effetti civili proposta dalla F. , relativamente a un episodio lesivo verificatosi in data 3 febbraio 2003, in epoca successiva all’instaurazione del giudizio di separazione.

lunedì 11 giugno 2012

Se il coniuge è anaffettivo e poco incline agli affetti il matrimonio è annullabile!


Cassazione civile, sez. I, 31 maggio 2012, n. 8772

di Fabrizia Gaia Postiglione

Con sentenza n. 8772 del 31 maggio 2012 la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito l'annullamento del vincolo matrimoniale poichè il marito manifestava una grave anaffettività ed era poco incline agli affetti.
L'uomo, noto professionista, aveva richiesto la cessazione del vincolo dinanzi al Tribunale Ecclesiastico poichè, essendo consapevole del suo problema psicologico, soffriva della totale incapacità di provare sentimenti nei confronti della moglie.
La donna però si opponeva alla  decisione della Corte d'Appello e presentava ricorso in Cassazione ma, in questa sede, veniva ribadito l'orientamento dei Giudici di merito e rotali.
Come si evince dalla motivazione, gli Ermellini hanno infatti stabilito che " il Giudice a quo, diversamente da quanto afferma la ricorrente, fornisce una motivazione adeguata e non illogica sulla incapacità psichica dell’uomo, come emergente dalla sentenza ecclesiastica: un disturbo della personalità caratterizzato tra l’altro da rigidezza, intolleranza, difficoltà di espressione degli affetti, a nulla rilevando l’elevato livello culturale e l’attività professionale del soggetto; il disturbo predetto, si presta infatti ad incidere negativamente sulla sfera volitiva e sui processi psico affettivi, rendendolo inidoneo a realizzare un rapporto di comunione e condivisione con il coniuge".
In virtù di quanto sopra esposto, i Giudici di Piazza Cavour hanno ravvisato una incapacità del marito nel proseguire il vincolo matrimoniale e, di conseguenza, la richiesta di annullamento è fondata poichè  si equipara  "la incapacitas psichica assumendi onera matrimonii alla incapacità di intendere e di volere di cui all’art. 120 c.c., in contrasto con l’ordine pubblico italiano edeterminando una violazione dell’art. 797 n. 7 c.p.c. (nella formulazione soppressa, ma ancora operante, in relazione alla delibazione di sentenze ecclesiastiche)."
Si riporta di seguito il testo della sentenza in commento:

martedì 5 giugno 2012

Assegno divorzile e limiti nelle indagini tributarie.

di Fabrizia Gaia Postiglione 


Cassazione civile, sez. I, 22 marzo 2012, n. 4551

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La Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 22 marzo 2012 n. 4551, ha chiarito i limiti alle indagini sul patrimonio del coniuge in relazione alla determinazione dell’assegno divorzile.
Il predetto caso riguarda un uomo divorziato che, dopo aver contratto un nuovo matrimonio, non solo non voleva riconoscere all’ex moglie un aumento dell’assegno ma, adiva il Tribunale per ottenere la riduzione dello stesso.
A supporto della tesi il ricorrente sosteneva che “la sua condizione economica era sostanzialmente peggiorata in quanto si era risposato e aveva avuto un figlio e il nuovo nucleo familiare era interamente a suo carico.”
I coniugi ricorrevano pertanto in Cassazione per vedersi riconoscere i rispettivi diritti.
I Giudici di Piazza Cavour hanno stabilito che per le determinazione dell’ammontare dell’assegno divorzile si possono compiere indagini patrimoniali (come espressamente previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, )avvalendosi della polizia tributaria ma cio’ costituisce una deroga alle regole generali sull'onere della prova.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione ha delineato i limiti della predetta azione stabilendo che il Giudice potrà esercitare il suo potere discrezionale ma questonon può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche”, né può “supplire alla carenza probatoria della parte onerata”e, pertanto, la polizia tributaria potrà essere adita solo per ottenere “informazioni integrative del bagaglio istruttorio già fornito”.
In virtù di quanto sopra esposto si giunge alla conclusione che non solo l’indagine effettuata della polizia tributaria deve essere disposta sulla base di “fatti specifici e circostanziati” ma la parte, inoltre, deve dimostrare che quel rimedio è indispensabile per colmare la lacuna probatoria della sua difesa.
Di seguito si riporta la sentenza della Suprema Corte:

martedì 29 maggio 2012

La responsabilità civile nell'attività medico chirurgica.


di Alessandra Scaglione

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Il presente contributo tratta della responsabilità civile nell’attività medico chirurgica, nella specifica ipotesi  in cui il medico esegua prestazioni chirurgiche, seppure occasionalmente, all’interno di una clinica  privata e della tutela risarcitoria conseguente, alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008 in tema di danno esistenziale.
La questione impone duplice trattazione; in primo luogo, occorre  risolvere la questione relativa al rapporto di lavoro che si instaura tra il paziente e la clinica privata nella ipotesi in cui, a seguito di pagamento del corrispettivo, vi sia un inadempimento delle obbligazioni a suo carico nonché l’inadempimento della prestazione medico professionale svolta dal sanitario quale ausiliario della clinica; in secondo luogo, occorre interrogarsi  sul risarcimento del danno non patrimoniale ed, in particolare, se sia configurabile e possa formare oggetto di tutela risarcitoria il cosiddetto danno esistenziale.
Riguardo al primo quesito, rileva la lettura dell’articolo 1228 cod.civ. a norma del quale il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche per fatti dolosi o colposi di costoro.
Detta norma postula: l’esistenza di un danno causato dal fatto dell’ausiliario, la configurazione di un rapporto tra l’ausiliario e il committente ed, infine, un rapporto di causalità tra il danno e l’esercizio dell’ausiliario.
La definizione del caso prospettato non può arrestarsi alla semplice lettura della norma, ma necessita del supporto di risposte giurisprudenziali sul punto.
Secondo un orientamento dei giudici di legittimità il rapporto che si instaura tra il paziente e la clinica ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo.

venerdì 18 maggio 2012

La Cassazione sul danno da vacanza rovinata.


di Alessandra Scaglione

Cassazione civile, sez. III, 11 maggio 2012, n. 7256

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Nella sentenza in commento la Suprema Corte torna sulla questione della risarcibilità, o meno, ai sensi dell’art. 2059 c.c., del danno non patrimoniale da vacanza rovinata.
In merito a tale problematica la Cassazione afferma che il danno non patrimoniale da vacanza rovinata è risarcibile ex art. 2059 cod. civ., che, secondo l'interpretazione della giurisprudenza di legittimità, stante il carattere tipico della tutela di interessi non connotati da rilevanza economica, necessita di una fonte normativa ordinaria espressa, o del fondamento costituzionale, in riferimento ai diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost., 4, 13, 29, 30), e al diritto alla salute (art. 32 Cost.), o di una fonte comunitaria, in ragione della prevalenza del diritto comunitario su quello interno.
Si riporta di seguito il testo della sentenza:

mercoledì 16 maggio 2012

Punta Perotti: la sentenza che condanna l'Italia a pagare 49 milioni di euro!!


 Si riporta di seguito il testo della sentenza con cui la Corte di Strasburgo condanna l'Italia a pagare la somma di 49 milioni di euro, a titolo di risarcimento, ai costruttori dell'ecomostro Punta Perotti.
La condanna deriva dall'anomala confisca dei terreni di proprietà della Sud Fondi s.r.l. e altri nonostante l'assoluzione dall'accusa di abusivismo.
  

SECONDA SEZIONE
CAUSA SUD FONDI S.R.L. E AL. c. ITALIA
(Ricorso n. 75909/01)
SENTENZA
(Equa soddisfazione)
STRASBURGO
10 maggio 2012
La presente sentenza diventerà definitiva secondo le condizioni di cui all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire revisioni di forma.
Nella causa Sud Fondi S.r.l. e al. c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunitasi in camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
Isabelle Berro-Lefèvre,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Guido Raimondi, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo averla deliberata in camera di consiglio il 20 marzo 2012,
Emette la seguente sentenza, adottata in questa data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 75909/01) diretto contro la Repubblica Italiana con il quale tre società di diritto italiano, Sud Fondi srl, Mabar s.r.l e Iema s.r.l («i ricorrenti»), hanno adito la Corte il 25 settembre 2001 ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (« la Convenzione»). Dal fascicolo risulta che il primo ricorrente è in liquidazione.
2. Con sentenza del 20 gennaio 2009 («sentenza di cui alla causa principale»), la Corte si è pronunciata per l’arbitrarietà del sequestro dei beni dei ricorrenti, secondo l’articolo 7 della Convenzione e l’articolo 1 del Protocollo n. 1 (Sud Fondi e al. c. Italia, n. 75909/01, §§ 118 e 137, e punti 1 e 2 del disposto del 20 gennaio 2009).
3. Fondandosi sull’articolo 41 della Convenzione, i ricorrenti chiedevano un’equa soddisfazione per danno materiale, danno morale e spese di lite.
4. Poiché la questione dell’applicazione dell’articolo 41 della Convenzione non era ancora matura per il danno materiale, la Corte l’ha riservata e ha invitato il Governo e i ricorrenti a sottoporre alla Corte, entro sei mesi, le loro osservazioni sulla suddetta questione per iscritto e in particolar modo a informare la Corte di qualsiasi accordo cui fossero pervenuti (ibidem, § 149, e punto 4 del dispositivo).
5. Sia i ricorrenti che il Governo hanno depositato le loro osservazioni e informazioni strettamente limitate ai fatti fino alla fine del 2011.
IN FATTO
A. I fatti pertinenti posteriori alla sentenza di cui trattasi nella causa principale
1. La revoca del sequestro
6. In seguito alla sentenza di cui trattasi nella causa principale, essendosi pronunciato per la violazione dell’articolo 7 della Convenzione e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 a causa della confisca dei beni dei ricorrenti, il Governo (Presidenza del Consiglio dei ministri) aveva
sollecitato la revoca della sanzione dinanzi al Tribunale di Bari.
7. Poiché questa richiesta era stata rigettata il 26 ottobre 2009, il Governo ha fatto ricorso in Cassazione.
8. Con decisione dell’11 maggio 2010 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e ha revocato la decisione impugnata con rinvio.
9. Il 4 novembre 2010 il Tribunale di Bari ha accolto la richiesta di revoca della sanzione e ha ingiunto la restituzione dei terreni confiscati ponendo a carico dello Stato le spese di trascrizione nel registro fondiario. I terreni sottoposti a confisca nel 2001 che dovevano essere restituiti erano i seguenti:
a) al ricorrente Sud Fondi SRL: terreni per una superficie totale di 59.761 metri quadrati interessati dal piano di lottizzazione n. 141 del 1989 (che compaiono in altri documenti come il n. 141/87) inclusi i terreni non edificabili ai sensi della concessione edilizia n. 67/1992 che erano stati anch’essi confiscati conformemente alla sentenza della Corte di Cassazione del 29 gennaio 2001;
b) al ricorrente Mabar SRL: terreni per una superficie di 13.095 metri quadrati interessati dal piano di lottizzazione n. 151 del 1989, inclusi i terreni non edificabili ai sensi della concessione edilizia n. 284/93 che erano stati anch’essi confiscati conformemente alla sentenza della Corte di Cassazione del 29 gennaio 2001;
c) al ricorrente Iema SRL: terreni per una superficie di 2.726 metri quadrati interessati dal piano di lottizzazione n. 151/89, inclusi i terreni che non rientravano nella concessione edilizia n. 284/93 che erano stati anch’essi confiscati ai sensi della sentenza della Corte di Cassazione del 29 gennaio 2001.
10. Il Comune di Bari ha proposto un ricorso in cassazione e chiesto un rinvio in esecuzione della decisione del tribunale. La richiesta di rinvio è stata rigettata il 17 gennaio 2011. Poiché il Comune di Bari aveva rinunciato al ricorso in cassazione, la decisione del Tribunale di Bari del 4 novembre 2010 è diventata definitiva.
2. La restituzione dei terreni agli usi legittimi
11. Con lettera datata 26 gennaio 2011, il Comune di Bari ha invitato i ricorrenti a recarsi sul posto l’8 febbraio 2011 per la consegna dei suoli.

lunedì 7 maggio 2012

Il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto dal genitore che non lo ha riconosciuto.

di Maria Elena Gardin

Cassazione civile, sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte afferma che l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicchè nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Si riporta di seguito il testo integrale della sentenza:

lunedì 23 aprile 2012

Equitalia: le Sezioni Unite sull’illegittimità dell’ipoteca sotto gli 8000 euro.


 Cassazione civile, Sezioni unite, 12 aprile 2012, n. 5771.

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Nella sentenza in commento la Suprema Corte, a Sezioni Unite, affronta in maniera definitiva la questione della legittimità, o meno, dell’iscrizione di ipoteca da parte di Equitalia su crediti inferiori a 8000 euro. 
Confermando quanto già affermato in precedenti occasioni la Corte dichiara la illegittimità di dette iscrizioni ipotecarie.
Si riporta di seguito il testo integrale della sentenza:
La Corte, rilevato che con ricorso del 2/10/2006 la srl La Colonna ha impugnato l'iscrizione ipotecaria effettuata su due terreni di sua proprietà in conseguenza del mancato pagamento di una cartella esattoriale per complessivi Euro 2.028,66, dovuti a titolo di contributi per opere irrigue realizzate dal Consorzio di bonifica Alli Copanello negli anni 2000/2003;
che costituitasi la E. Tr. Equitalia, il giudice adito ha pronunciato l'annullamento dell'iscrizione per
violazione dell'art. 76 del DPR n. 602/1973, secondo il quale il concessionario non poteva procedere alla espropriazione immobiliare se l'importo del credito non superava gli ottomila Euro; che la E. Tr. Equitalia si è gravata alla Commissione Regionale che ha, però, rigettato l'appello perché «nessun precetto legislativo era stato adempiuto dal concessionario sia in ordine al valore

domenica 15 aprile 2012

La rilevanza dei matrimoni tra omosessuali nell'ordinamento italiano.

Cassazione civile, sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184

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Si riporta oggi la tanto discussa sentenza della Cassazione con cui viene riconosciuta rilevanza giuridica nell’ordinamento italiano ai matrimoni tra omosessuali celebrati all’estero.
In particolare, la Prima sezione della Cassazione rigettando il ricorso di due cittadini italiani dello stesso sesso, unitisi in matrimonio all’estero, i quali rivendicavano il diritto alla trascrizione dell’atto nei registri dello stato civile italiano, ha affermato, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale ed europea, che quel matrimonio non è tuttavia “inesistente” per l’ordinamento interno, ma è solo inidoneo a produrvi effetti giuridici; ha affermato, altresì, in senso generale, che le persone omosessuali conviventi in stabile relazione di fatto sono titolari del diritto alla “vita familiare” e possono agire in giudizio in “specifiche situazioni” per reclamare un “trattamento omogeneo” rispetto ai conviventi matrimoniali.
Si riporta di seguito il testo della sentenza in commento

venerdì 30 marzo 2012

Fonti non contrattuali dell'obbligazione: promesse unilaterali.


 di Giulio Forleo


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L’art. 1173 cod. civ. delinea all’interno dell’impianto codicistico del ’42 un sistema delle fonti delle obbligazioni di tipo “aperto”.
Esso stabilisce che, oltre al contratto e al fatto illecito, possono essere fonti delle obbligazioni qualsiasi altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità con l’ordinamento giuridico.
Il riferimento alla conformità all’ordinamento giuridico non è evidentemente alla sola legge (perché altrimenti si determinerebbe un sistema “chiuso”) ma ai principi generali dell’ordinamento, alla stregua dei quali bisogna valutare la idoneità, o meno, di una determinata fonte.
Ciò non toglie, però, che il legislatore abbia potuto prevedere delle fonti tipiche delle obbligazioni diverse dal contratto o dal fatto illecito.
Un esempio di ciò sono le “promesse unilaterali” disciplinate agli artt. 1987 e ss. del codice civile.
Con riferimento a questa categoria si discute in dottrina e giurisprudenza della possibilità che esistano altre forme di promesse unilaterali non codificate. Il dibattito nasce in primo luogo dalla prescrizione contenuta nell'articolo 1987 del codice civile secondo cui "la promessa unilaterale non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge".
In secondo luogo si discute proprio sulla possibilità, in generale, di assumere unilateralmente un'obbligazione in assenza del consenso dell'altra parte.
Come noto, infatti, il consenso riveste nell'ambito delle obbligazioni la duplice funzione di tutelare la sfera giuridica del terzo da un'ingerenza altrui (anche se vantaggiosa, è comunque non voluta) e di individuare l'interesse meritevole di tutela del proponente che costituisce la causa dell'obbligazione e in assenza della quale la stessa non potrebbe esistere.
Se, dunque, nelle promesse unilaterali “tipiche” una causa vaga (promessa al pubblico) o del tutto bizzarra (come possibile delle donazioni obbligatoria) è compensata dalla tipicità degli effetti nel primo caso, e dalla rigidità della forma nel secondo caso, ciò non si può dire nel caso di promesse unilaterali del tutto atipiche.
Sul punto, in realtà, la giurisprudenza sembra avere superato del tutto il dogma della necessità del consenso e della intangibilità della sfera del terzo, ammettendo la possibilità di promesse unilaterali atipiche, sempre che si tratti di promesse interessate e rifiutabili ai sensi dell'articolo 1333 del codice civile.
Proprio sull'articolo 1333 codice civile è doveroso precisare che la giurisprudenza parla in proposito di "negozio unilaterale rifiutabile" escludendo la equiparazione silenzio-accettazione che secondo parte della dottrina fonderebbe la natura bilaterale dell'istituto in questione.
Fatta questa doverosa premessa sulle possibili promesse unilaterali atipiche, è bene analizzare ora le forme tipiche della promessa di pagamento, della ricognizione di debito e della promessa al pubblico.

martedì 27 marzo 2012

Le Sezioni Unite sulla possibilità di impugnare immediatamente la decurtazione punti sulla patente.


Cassazione civile, Sezioni Unite, 13 marzo 2012, n. 3936.

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Nella sentenza in commento le Seioni Unite della Cassazione, risolvendo un contrasto interno affermano che “In tema di sanzioni amministrative conseguenti a violazioni del codice della strada che, ai sensi dell’art. 126-bis del codice della strada, comportino la previsione dell’applicazione della sanzione accessoria della decurtazione dei punti dalla patente di guida, il destinatario del preannuncio di detta decurtazione - di cui deve essere necessariamente fatta menzione nel verbale di accertamento - ha interesse e può quindi proporre opposizione dinanzi al giudice di pace, ai sensi dell’art. 204-bis del codice della strada, onde far valere anche vizi afferenti alla detta sanzione amministrativa accessoria, senza necessità di attendere la comunicazione della variazione di punteggio da parte dell’Anagrafe nazionale de- gli abilitati alla guida».
Si riporta di seguito l’articolato testo della sentenza:

martedì 20 marzo 2012

Nulle tutte le cartelle di Equitalia!!!

Cassazione civile, sez. II, 16 febbraio 2007, n. 3701.

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La sentenza in commento, tenuta nascosta per anni (da tutte le raccolte giurisprudenziali) e ritirata fuori dal settimanale l’Espresso, afferma con chiarezza che a causa degli aumenti semestrali del 10% applicati da Equitalia tutte le cartelle sarebbero nulle!!!
Si riporta di seguito la sentenza della Suprema Corte:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L’Ufficio Territoriale del Governo di Benevento ha impugnato, nei confronti di A.M.G., con ricorso notificato il 27.10.04, la sentenza del Giudice di Pace di Benevento, che aveva dichiarato la nullità dell’opposta cartella esattoriale, inerente al pagamento della somma di Euro 852,78 per violazione dell’art. 116 C.d.S., comma 2, ritenendo illegittima, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 27, la maggiorazione per interessi operata sulla somma stabilita dalla legge.
Lamenta la violazione e falsa applicazione L. n. 689 del 1981, art. 27, atteso che, contrariamente all’assunto del G.d.P., proprio detto articolo prevede espressamente l’effettuata maggiorazione, in caso di ritardo nel pagamento delle somme dovute a titolo di sanzione.
A.M.G. resiste.
Il P.G. ha chiesto la trattazione del ricorso in Camera di Consiglio.

DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è manifestamente infondato.
Infatti alle sanzioni, come nella specie stradali, si applica l’art. 203 C.d.S., comma 3, che, in deroga alla L. n. 689 del 1981, art. 27, in caso di ritardo nel pagamento della sanzione irrogata nell’ordinanza – ingiunzione, prevede, l’iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale e non anche degli aumenti semestrali del 10%. Aumenti, pertanto, correttamente ritenuti non applicabili dal G.d.P., peraltro con motivazione errata, che va quindi corretta in conformità all’enunciato principio. Al rigetto del ricorso, segue la condanna alle spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l’Ufficio Territoriale Governo di Benevento alle spese in Euro 500,00 di cui Euro 400,00 per onorari.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2007

mercoledì 14 marzo 2012

La prescrizione dell’illecito penale si applica all’azione di risarcimento.

 Cassazione civile, sez. III, 17 gennaio 2012,  n. 542.

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Nel caso in cui l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato perseguibile a querela, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per l’illecito penale si applica anche all’azione di risarcimento (art. 2947 co. 3, c.c.) sebbene la querela non sia stata presentata, ma a condizione che il Giudice civile accerti incidenter tantum gli estremi del fatto-reato stesso in tutti i suoi elementi costituitivi, soggettivi ed oggettivi.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 5.10.95, T. G. conveniva in giudizio gli avvocati D. S. G.(oltre a B. P.) per responsabilità professionale, non avendo gli stessi, mandatari in epoche diverse, curato diligentemente l’incarico ricevuto in ordine alla richiesta risarcitoria del T., a seguito delle gravi lesioni riportate in un incidente stradale a Monza, nei confronti della N. Assicurazioni e di D. R., responsabile di detto sinistro; deduceva in particolare che il D.S. aveva, con il suo comportamento, sia determinato la prescrizione dell’azione civile, trascurando di provvedere all’interruzione dei termini, sia trascurato l’azione penale.
Costituitisi entrambi i convenuti, il Tribunale di Padova, con sentenza in data 29.10.2002 condannava il solo D. S. al pagamento di € 154.935,00 a titolo di risarcimento danni rigettando la domanda nei confronti del B.
A seguito dell’appello del T. nei confronti del solo D. S., la Corte d’Appello di Venezia, con la decisione in esame depositata in data 9.10.2008, in accoglimento del gravame e in parziale riforma della sentenza impugnata, rideterminava in € 309.870,00 la somma dovuta da G.D.S al T.
(in particolare a T. G. quale erede di T. G. Affermava in particolare la Corte territoriale che,
sulla base delle modalità del sinistro stradale in questione, al T. sarebbe spettato un
risarcimento maggiore rispetto a quanto ritenuto in primo grado, non ritenendo sussistente un concorso di colpa dello stesso.
Ricorre per cassazione D.S. contro T.G. nella qualità con quattro motivi e relativi quesiti; resiste con controricorso l’intimato, depositando altresì memoria.
Infine, a seguito del decesso del ricorrente, è stata depositata dagli eredi di quest’ultimo D. M. e D.L. atto denominato “comparsa aggiuntiva dicostituzione e risposta per gli eredi del ricorrente”, datata 7.11.2011.

Motivi della decisione

venerdì 9 marzo 2012

La Cassazione sul dolo contrattuale per effetto di truffa.

Cassazione civile, sez. II, 31 marzo 2011, n. 7468.

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Nella sentenza in commento la Corte di cassazione si interroga sulla sorte del contratto stipulato per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell’altro.
La Suprema Corte afferma che “il contratto concluso per effetto di truffa, penalmente accertata, di uno dei contraenti in danno dell'altro è non già radicalmente nullo (ex art. 1418 cod. civ., in correlazione all'art. 640 cod. pen.), sebbene annullabile ai sensi dell'art. 1439 cod. civ., atteso che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente, neanche sotto il profilo dell'intensità, diverso da quello che vizia il consenso negoziale, entrambi risolvendosi in artifizi o raggiri adoperati dall'agente e diretti ad indurre in errore l'altra parte e così a viziarne il consenso. Pertanto, con riguardo alla vendita, il soggetto attivo che riceve la cosa col consenso sia pur viziato dell'avente diritto, ne diviene effettivo proprietario, con il connesso potere di trasferirne il dominio al terzo e con la conseguenza che, a sua volta, quest'ultimo ove acquisti in buona fede ed a titolo oneroso, resta al riparo degli effetti dell'azione di annullamento, da parte del "deceptus", ai sensi e nei limiti di cui all'art. 1445 (in relazione agli artt. 2652 n. 6, 2690 n. 3) cod. civ.”
Il caso è quello di Tizio che con atto di citazione ....

mercoledì 29 febbraio 2012

Adempimento del terzo e surrogazione nei diritti del creditore.


 di Giovanni Miccianza

Preliminarmente occorre analizzare la questione relativa all’eventuale tutela che offre l’ordinamento al terzo che, in materia assolutamente spontanea ed unilaterale, adempia consapevolmente al debito altrui.
Sul punto, in particolare, notevole è il contributo che dottrina e giurisprudenza hanno fornito nel corso degli anni, prendendo spunto dalla disposizione dell’art. 1180 c.c., in forza del quale: una obbligazione può essere adempiuta da un terzo, anche contro la volontà del creditore, se quest’ultimo non ha interesse che il debitore esegua personalmente la prestazione.
Il secondo comma della stessa norma, inoltre, precisa che il creditore può rifiutare l’adempimento offertogli dal terzo se il debitore gli ha manifestato la sua opposizione.
Dal tenore letterale della norma, appare chiaro che nulla viene detto circa il rapporto che si viene ad instaurare tra debitore e terzo.
A tale proposito, pertanto, il problema da risolvere risulta l’identificazione del titolo in base al quale il terzo potrebbe agire nei confronti del debitore, in considerazione del fatto che, come è stato sottolineato dalla Suprema Corte, detto titolo “sussiste soltanto in presenza di una delle ipotesi di surrogazione e regresso previste dalla legge” (Cass., Sez. Un., 29 aprile 2009, n. 9946).
In dottrina e giurisprudenza, al riguardo, vi è chi ha individuato nella situazione che si determina tra terzo e debitore una fattispecie di surrogazione nei diritti del creditore, ai sensi del terzo comma dell’art. 2036 e del quinto comma dell’art. 1203 c.c..
Un simile orientamento, per molto tempo, è parso prevalente, con diverse pronunce dei Giudici di legittimità che hanno evidenziato come “se anche la ripetizione di indebito non fosse ammessa, ove un soggetto abbia adempiuto un debito altrui ben sapendo di non essere debitore (non potendo tale pagamento considerarsi effettuato in situazione di errore), in questa ipotesi vi è luogo quanto meno alla surrogazione del solvens nei diritti del creditore, ai sensi dell’art. 2306, comma 3, c.c. e dell’art. 1203, n. 5 c.c.” (Cass., 29 aprile 1999, n. 4301).
Tale opinione, deve però precisarsi, risulta più di recente abbandonata.
Ed invero, come recentemente evidenziato da una decisione dei Giudici di legittimità: la disposizione dettata dall’art. 1180 c.c. attribuisce al pagamento effettuato dal terzo, che non abbia interesse ad una prestazione personale, effetto solutorio dell’obbligazione anche contro la volontà del creditore, ovvero norma in base alla quale non viene attribuito al terzo adempiente un titolo per agire nei confronti del debitore al fine di ripetere la somma versata in adempimento “essendo necessario, a tal fine, che sia allegato e dimostrato il rapporto sottostante tra terzo e debitore” (Cass., 8 novembre 2007, n. 23292).
Ed a tale proposito, proprio con riferimento alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite prima richiamata, può ulteriormente specificarsi che un tale titolo sussiste solo nelle ipotesi di surrogazione e regresso previste dalla legge, ai sensi degli artt. 1201-1202 e 1203 c.c..
Così delineata la situazione, bisogna allora chiedersi quale eventuale rimedio possa avere il terzo che ha adempiuto spontaneamente ma che non ha la possibilità di surrogarsi nei diritti del creditore.
A tale proposito, la Suprema Corte osserva che “indubbiamente il solvens – stante l’ingiustificato vantaggio economico ricevuto dal debitore – può agire, nel concorso delle condizioni di legge, per l’ottenimento dell’indennizzo da arricchimento senza causa ” (Cass., Sez. Un., 29 aprile 2009, n. 9946).
Sul punto, risulta però necessario formulare alcune ulteriori considerazioni.
In primo luogo, infatti, deve sottolinearsi che secondo un orientamento della stessa Suprema Corte, l’azione di arricchimento non potrebbe essere esercitata quando il soggetto che si è arricchito è diverso da quello con il quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto, tenuto conto che in questo caso l’eventuale arricchimento costituisce solo un effetto indiretto e riflesso della prestazione eseguita (cfr., tra le altre, Cass., 26 luglio 2002, n. 11051 e Cass., 5 agosto 2003, n. 11835).
In secondo luogo, proprio con riferimento al “concorso con le condizioni di legge” sottolineato dalla richiamata sentenza della Suprema Corte Sezioni Unite, deve evidenziarsi come, dal punto di vista della regola generale, gli stessi Giudici di legittimità hanno ribadito, peraltro con altra recente pronuncia a Sezioni Unite, che per dar luogo all’azione ex art. 2041 c.c. devono ricorrere due requisiti, costituiti dall’unicità del fatto costitutivo dell’arricchimento e dalla sussidiarietà dell’azione (cfr. Cass., Sez. Un., 8 ottobre 2008, n. 24772).
Da ultimo, merita di essere segnalato che, in ogni caso, vi sarebbe una sostanziale differenza, quanto ai risultati ottenuti, tra la surrogazione e l’eventuale esercizio dell’azione di ingiustificato arricchimento.
Nel primo caso, infatti, con la surrogazione il terzo si trova ad acquisire il diritto di credito spettante all’originario creditore, con tutti gli accessori, le relative cauzioni, le eventuali garanzie reali e personali, subentrando il terzo in tutte le posizioni giuridiche che per l’appunto appartenevano alla sfera del creditore.
Con l’azione ex art. 2041 c.c., viceversa, fermo restando i necessari presupposti per farvi ricorso, il solvens potrebbe conseguire un indennizzo (cfr. a tale proposito Cass., Sez. Un., 11 settembre 2008, n. 22385).
Alla luce di quanto sopra riportato e, soprattutto, tenuto conto del riferito orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi che, per recuperare quanto corrisposto il terzo potrà agire ai sensi del terzo comma dell’art. 2036 c.c. soltanto in presenza di una delle ipotesi di surrogazione  e regresso previste dalla legge. Nella denegata ipotesi in cui non si potrà agire con la surrogazione o tra mite l’azione di regresso, nel concorso delle condizioni di legge, si potrà esperire l’azione per l’ottenimento dell’indennizzo da arricchimento senza causa.