martedì 26 marzo 2013

Le Banche e i clienti: luci ed ombre su un rapporto controverso.


della Dott.ssa Stefania Cosimi

Buon giorno cari lettori in un contesto socio economico come quello attuale scagli la prima pietra chi non si è dovuto confrontare quotidianamente con la “sua Banca”. Per molti di noi tecnici o non il confronto con il titano in questione è spesso gravoso: il personale che interloquisce con l’utente, infatti, è costretto ad applicare le proprie “normative” spiegando di volta in volta al cliente che divenendo tale le ha accettate, anche se non pienamente comprese. Si purtroppo è così tutti noi aderiamo ad un servizio bancario firmando montagne di documenti e legittimando l’istituto ex post a variare le condizioni contrattuali a nostro sfavore. Sembra un eresia ma è cosi.
Ma andiamo con ordine e partiamo dalla considerazione che normalmente una famiglia è costretta ad aprire un conto corrente bancario per le normali operazioni di cassa: accreditare bonifici per stipendi e pensioni, domiciliare utenze e se le è possibile fare del risparmio.
Il contratto di conto corrente è regolato nella sua disciplina dal codice civile e dal Testo Unico sulle Disposizioni Bancarie. L’art. 1834 cc prevede che nei depositi di somme di denaro presso una banca questa ne acquista la proprietà ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria alla scadenza del termine convenuto ovvero a richiesta del depositante. La Banca risponde dell’esecuzione dell’incarico secondo le norme sul mandato (art.1856 cc) Il T.U. delle disposizioni bancarie con particolare riferimento all’art.118 comma 1° prevede che nei contratti a tempo indeterminato può essere convenuta, con clausola approvata specificatamente dal cliente la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni previste dal contratto qualora sussiste un giustificato motivo oggettivo.

lunedì 4 marzo 2013

La Cassazione sul giustificato motivo di licenziamento.


Corte Suprema di Cassazione – Sezione Lavoro – 2 gennaio 2013, n. 6 – Pres. Venuti – Est. Dantino (Conferma Corte di Appello di Brescia, 25 ottobre 2007, n. 429).

Licenziamenti individuali – Art.5 L.604/1966 – Giustificato motivo oggettivo – Onere della prova – Datore di lavoro – Impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni.

L’art.5 L.n.604/1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo del licenziamento e che in giurisprudenza è ormai consolidato il principio secondo cui in capo al datore di lavoro incombe, altresì, l’onere di provare l’impossibilità di adibire lo stesso lavoratore da licenziare ad altre mansioni equivalenti a quelle svolte all’interno dell’azienda nell’ambito dell’organizzazione aziendale.

Licenziamenti individuali – Giustificato motivo oggettivo – Valutazione del datore di lavoro –Non sindacabilità – Giudice – Controllo sussistenza del motivo – Reimpiego – Prova - Onere del lavoratore.

Il giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art.41 Cost. Pertanto, spetta al giudice il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo adottato dal datore di lavoro, che deve dare prova anche in ordine all’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, mentre il lavoratore ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego.
Stefania Cosimi


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La Cassazione sulla definizione di Costruzione.


Corte di Cassazione Sezione – Sez. II Civile – 3 gennaio 2013 n. 72  - Pres. Oddo – Est. Nuzzo Presidente  (Conferma Corte di Appello di Catania, 26 luglio 2005, n. 795)

Diritti reali – Definizione di costruzione – Accessori e pertinenze – Incorporate – Distanze legali- Rispetto normativa – Sussiste.

Deve ritenersi “costruzione” ai fini dell’osservanza delle norme dei regolamenti integrativi della disciplina codicistica, qualsiasi opera non completamente interrata, avente i caratteri di solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio ed incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica, contestualmente realizzato o preesistente e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione.
Conseguentemente gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell’immobile, così da ampliarne la superficie e la destinazione economica sono soggette al rispetto della normativa sulle distanze.
Stefania Cosimi


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La Cassazione in tema di luci e vedute.


Corte di Cassazione – Sez. II Civile – 10 gennaio 2013 n. 512 – Pres. Oddo – Est. Scalisi – C. c/ F. (Cassa con rinvio Corte d’Appello di Napoli, 18 ottobre 2005 n.2914)

Diritti reali – Luci e vedute – Luce irregolare – Vicinato – Diritto a conformità – Muro comune.
L’apertura non avente i caratteri di veduta, in quanto non consenta di affacciarsi sul fondo del vicino, è considerata luce benché non conforme alle prescrizioni di cui all’art. 901 c.c. ; pertanto, nell’ipotesi di luce irregolare, il vicino ha diritto che tale apertura sia resa conforme alle prescrizioni di cui all’articolo testé menzionato ovvero ha diritto di chiuderla acquistando la comunione del muro ed appoggiandovi la propria fabbrica o costruendovi in aderenza.

Per il testo integrale della sentenza clicca qui!!!

Le aperture sul fondo del vicino si distinguono in due categorie.   
-Le luci sono aperture che consentono il passaggio di aria e luce ma non l’affaccio.
-Le vedute  (anche dette prospetti) sono le finestre che consentono di affacciarsi e guardare di fronte, di lato e in  obliquo[1]. In buona sostanza, il principale elemento discretivo tra le due si concreta nella possibilità di guardare o meno sul fondo del vicino. Le vedute postulano oltre al requisito dell’inspectio quello della prospectio[2], vale a dire  la possibilità di sporgersi sul fondo altrui, non solo frontalmente ma anche obliquamente e lateralmente. In ragione di ciò, le vedute si distinguono in dirette, oblique o laterali a seconda di come si realizza l’affaccio.
A propria volta le luci[3] si dividono in regolari e irregolari.  Le prime sono tali allorché osservino le prescrizioni contenute nell’art. 901 c.c. In particolare, devono essere dotate di:           
1) un’inferriata (di dimensioni tali da impedire il passaggio di una persona) volta a garantire la sicurezza del vicino;            
2) una grata[4] diretta ad impedire l’immissione nel fondo del vicino di cose gettate dalla finestra;
3) un’altezza minima, sia interna che esterna, per impedire l’esercizio della veduta sul fondo finitimo; il lato inferiore non deve essere ad un’altezza minore di 2,5 metri dal suolo a cui si desidera dare aria (se si trovano a pian terreno) o di 2 metri (se sono ai piani superiori); il lato inferiore non deve essere ad un’altezza minore di 2,5 metri dal fondo del vicino (art. 901 n. 2 e 3 c.c.). Tutti e i tre requisiti sono essenziali e devono sussistere contemporaneamente. Inoltre  nessun elemento componente dell’apertura (rectius: della luce) come, ad esempio, la grata, deve fuoriuscire dal profilo esterno del muro nel quale la luce è realizzata.
Si qualificano come irregolari le luci che risultino scevre dei citati requisiti.          
Allorché le luci non siano regolari il proprietario del fondo finitimo  può agire in giudizio per ottenerne la regolarizzazione[5].      
La ratio sottesa al meticoloso regime delle distanze indicato sia per le luci (art. 901 c.c.) sia per le vedute (art. 905 c.c.) trova il proprio ubi consistam nell’esigenza di salvaguardare la riservatezza del fondo del vicino[6].

Marcella Ferrari




[1] Vedasi BIANCA, Diritto civile. La proprietà, 6, Milano, Giuffrè, 1999, 278 ss.
[2] In tal senso vedonsi Cass., Sez. II, 25 ottobre 2006 n. 22844; Cass., S.U., 28 novembre 1996, n. 10615, Giust. Civ., 1997, I, 633.
[3] L’apertura di luci sul fondo vicino può costituire oggetto di  un diritto personale ovvero di un diritto di servitù.
[4] Ai sensi dell’art. 901 n. 1 c.c. le maglie delle grata non possono essere superiori a tre centimetri quadrati.
[5] Il proprietario del fondo su cui è aperta una luce irregolare  non ha diritto alla sua chiusura ma solo alla sua regolarizzazione. In tal senso vedasi: Cass., Sez. II, 4 luglio 2000, n. 8930.
[6] In tal senso Cass., Sez.II, 28 luglio 2005, n. 15885.

La Cassazione sulla responsabilità precontrattuale.


Corte di Cassazione – Sez. II Civile – 10 gennaio 2013 n. 477 – Pres. Dott. R.M.Triola – Est. S. Petitti; H. c/ R.T.A. ed altro (Cassa con rinvio Corte d’Appello di Trento, 23 luglio 2005 n. 320)

Responsabilità precontrattuale – Configurabilità – Trattative – Clausola generale – Correttezza e lealtà – Stipulazione del contratto

La regola disposta dall’articolo 1337 c.c non si riferisce alla sola ipotesi di ingiustificata rottura delle trattative, ma assume valore di clausola generale il cui contenuto non può essere predeterminato e implica il dovere per le parti di trattare in modo leale astenendosi da comportamenti reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante al fine della stipulazione del contratto; pertanto la violazione di questa regola aggiuntiva è idonea a determinare la configurazione della responsabilità precontrattuale.
Cfr. Cass. S.U. 19 dicembre 2007 n. 26725


In estrema sintesi e senza pretesa di completezza, la massima su riportata deriva dalla seguente vicenda concreta. La regione autonoma Trentino Alto Adige inseriva un “avviso di ricerca” su alcuni giornali al fine di individuare un immobile da destinare a nuova sede per gli Uffici del Catasto e del Libro Fondiario. A tale annuncio rispondeva la società Alfa, la cui offerta veniva considerata idonea. Si avviava così la fase delle trattative. Successivamente, giungeva un’offerta tardiva da parte della società Beta. L’originaria deliberazione con la quale si giudicava idonea la prima offerta veniva revocata e, senza fornire informazione veruna alla società Alfa, la regione proponeva un nuovo avviso di ricerca all’esito del quale, scelto un nuovo immobile, procedeva all’acquisto. La società Alfa conveniva in giudizio la regione domandando un risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale. La domanda veniva rigettata in primo e in secondo grado.

Sul vizio di motivazione nel ricorso in cassazione.


Corte di Cassazione – Sez. Lavoro – 10 gennaio 2013 n. 533 – Pres. Dott. G. Vidiri – Est. F. Garri; I. c/ L. (Conferma Corte d’Appello di Catania, 13 dicembre 2009 n.835)

Ricorso per cassazione – Vizio di motivazione – Omessa motivazione – Inammissibile istanza di revisione – Estraneità finalità giudizio.

È inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.

Cfr. Cass. Sez. Lavoro, 26 marzo 2010 n. 7394; Cass., Sez. Lavoro, 20 aprile 2006 n. 9233, Cass., Sez. Lavoro, 3 agosto 2000, 10206
Il principio testé citato  è stato più volte affermato dalla Suprema Corte, in senso conforme si vedano le pronunce su riportate.        
Il vizio di motivazione è il solo motivo di ricorso che non si fonda su di un errore di diritto e, mercé il quale, è possibile avvicinare il giudizio di cassazione a quello di merito[1]. Nondimeno il giudizio di legittimità si articola in una valutazione di carattere logico, non a caso si parla di vizio logico e non può tralignare in una valutazione che sfoci nel merito. Alla Corte di Cassazione, infatti, non è consentito procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze probatorie pertanto le censure solevate non possono sostanziarsi nel sollecitare una lettura diversa da quella accolta dal giudice del merito[2].         
In conclusione, il vizio di motivazione sollevato nel ricorso non può né deve celare la richiesta di un giudizio nel merito.

Marcella Ferrari


[1] In tal senso si veda MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile. Processo di Cognizione, II, Giappichelli, 2000, 280 ss.
[2] Vedonsi Cass., Sez. Lavoro, 01 marzo 2012, n. 3197; Cass., Sez. Lavoro, 20 aprile 2011, n. 9043

La Cassazione sulla natura e disciplina del contratto preliminare.


Corte di Cassazione – Sez. II Civile – 14 Gennaio 2013 n. 707 – Pres. Felicetti – Est. Bianchini – (Conferma Corte di Appello Genova, 06 Ottobre 2005, n.905).

Contratto preliminare di compravendita – Natura giuridica – Esecuzione anticipata – Disciplina applicabile – Art. 2932 c.c.

Il preliminare, ferma restando la sua natura di contratto giuridicamente definitivo pur se economicamente inserito in una fattispecie in itinere, laddove ne sia prevista la esecuzione anticipata di alcuni degli effetti principali del contratto c.d. definitivo, non diviene un aliquid novi rispetto allo schema delineato dall’art. 2932 cod. civ., ma la sua concreta disciplina risente dell’inizio di esecuzione che esso ha avuto.
Alessia Ventura

La Cassazione sulla responsabilità da cose in custodia.


Corte di Cassazione – Sez. III Civile – 15 gennaio 2013 n. 783 – Pres. Battisti Petti – Est. Lanzillo (Cassa Corte di Appello di Genova, 18 novembre 2009 n. 1142).

Responsabilità civile – Cose in custodia – Caso fortuito – Impossibilità di intervenire - Onere della prova – Custode.

L’onere della prova sia del caso fortuito sia dell’adempimento dei doveri di diligente manutenzione, è a carico del custode: per escludere la responsabilità di quest’ultimo, è necessario accertare inequivocabilmente o l’insussistenza del fatto storico dedotto in giudizio oppure l’assoluta impossibilità di intervenire in tempo utile per eliminarlo.
Elisabetta Patrizi

La Cassazione sull'incapacità lavorativa e il risarcimento del danno.


Corte di Cassazione – Sez. III Civile – 16 gennaio 2013 n. 908 – Pres. Petti – Est. Carleo – (Cassa Corte d’Appello di Firenze, 21 marzo 2006 n. 595).

Incapacità lavorativa generica – Danno biologico – Danno patrimoniale - Risarcimento – Lucro cessante – Reddito – Postumi di piccola entità – Capacità lavorativa – Non pregiudicata.

Fermo restando che la categoria concettuale della incapacità lavorativa generica, elaborata prima dell'individuazione di quella del danno alla salute al fine di evitare che il danneggiato privo di redditi di lavoro non conseguisse alcun risarcimento (diverso da quello connesso al danno morale), non può essere utilizzata per riconoscere in modo automatico un danno patrimoniale da lucro cessante come conseguenza delle lesioni e fermo restando che i postumi permanenti di piccola entità, non essendo idonei ad incidere sulla capacità di guadagno, non pregiudicano la capacità lavorativa e "rientrano" invece nel danno biologico come menomazione della salute psicofisica della persona, deve però sottolinearsi che ciò non significa che il danno biologico "assorba" anche la menomazione della generale attitudine al lavoro, giacché al danno alla salute resta pur sempre estranea la considerazione di esiti pregiudizievoli sotto il profilo dell'attitudine a produrre guadagni attraverso l'impiego di attività lavorativa. Ed invero, gli effetti pregiudizievoli della lesione della salute del soggetto leso possono dar luogo anche ad un danno patrimoniale di lucro cessante ove eliminino o riducano la capacità di produrre reddito.
Valentina Marzorati

La Cassazione in tema di insidia stradale.


Corte di Cassazione – Sez. III Civile – 16 gennaio 2013 n.907 – Pres. Petti – Est. Armano –(Conferma Corte d’Appello di Brescia, 2 marzo 2006 n. 154).

Sinistro – Insidia stradale – Pericolo occulto – Fatto illecito non autonomo – Ente Gestore – Colpa – Affidamento utente.

L’insidia stradale, intesa come pericolo occulto, non visibile e non prevedibile, non integra una regola sostanziale, cioè un’autonoma figura di illecito, ma è solo una figura sintomatica del comportamento colposo dell’ente gestore della strada pubblica, che, in virtù del principio del neminem ledere, è tenuto a far si che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al c.d. trabocchetto o insidia stradale.
La norma di riferimento rimane pur sempre l’art. 2043 c.c. e la colpa dell’ente gestore consiste nell’aver creato un affidamento nell’utente della strada o delle sue pertinenze, sulla non pericolosità della stessa.
Valentina Marzorati


La strage di Ustica. Le cause, i danni risarcibili, i termini di prescrizione.


di Alessia Ventura

CASSAZIONE CIVILE – Sez. III – 28 Gennaio 2013 n. 1871 – Pres. Uccella – Est. D’Alessandro (Cassa con rinvio la sentenza della Corte d’Appello Palermo n. 788 del 14 Giugno 2010)

La sentenza che si offre in commento, oltre ad aver ricevuto una notevole attenzione mediatica - trattandosi di pronuncia inerente il risarcimento del danno a carico del Ministero della Difesa e di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, a favore dei parenti delle vittime della c.d. strage di Ustica -, presenta molteplici profili di interesse civilistico, attinenti la responsabilità civile ex artt. 2043 e ss. c.c., il diritto al risarcimento del danno parentale jure proprio et jure hereditatis, ed il decorso del termine prescrizionale dell’azione risarcitoria.
Ma procediamo con ordine.
            La pronuncia della Suprema Corte si inserisce in una complessa vicenda giudiziaria inerente il disastro aereo, avvenuto il 27 Giugno 1980, tra le isole di Ponza e di Ustica, che ha provocato la morte delle 81 persone, 77 passeggeri  e 4 membri dell’equipaggio, che si trovavano a bordo del DC9-TIGI della società Itavia, precipitato misteriosamente in mare.
            La c.d. strage di Ustica, ha assunto, sin da subito, rilievo penalistico, portando allo svolgimento di un processo penale conclusosi, tuttavia, con assoluzioni nel merito ed estinzione dei reati per intervenuta prescrizione (Cass. Pen. n. 9174/2007). La sentenza di legittimità, inoltre, nulla statuisce circa le cause del disastro, ritenendo non raggiunta la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, che si sia trattato di un’esplosione interna all’aereo, ovvero di un attacco missilistico, oppure di un cedimento strutturale del DC9-TIGI.
            Un anno dopo il disastro, nel 1981, la società Itavia, proprietaria del velivolo, cita in giudizio il Ministero dell’Interno, quello della Difesa e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti. Il processo civile ha portato alla pronuncia della Suprema Corte n. 10285 del 05 Maggio 2009, la quale, non solo ha ribadito che il Giudice civile non può richiamare sic et simpliciter le risultanze del processo penale, senza tener conto della diversità di regole probatorie operanti nei due giudizi - “l’oltre ogni ragionevole dubbio” in sede penale, in luogo del “più probabile che non”  in sede civile -, ma ha individuato, a carico dei Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti convenuti, una responsabilità omissiva ex art. 2050 c.c., per aver violato l’obbligo giuridico, imposto loro da specifiche normative, di garantire la sicurezza dei voli e del traffico aereo.