di Alessia Ventura
CASSAZIONE CIVILE – Sez. III – 28 Gennaio 2013 n. 1871 – Pres. Uccella – Est. D’Alessandro (Cassa con rinvio la sentenza della Corte d’Appello Palermo n. 788 del 14 Giugno 2010)
La sentenza che si
offre in commento, oltre ad aver ricevuto una notevole attenzione mediatica - trattandosi
di pronuncia inerente il risarcimento del danno a carico del Ministero della
Difesa e di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, a favore dei parenti
delle vittime della c.d. strage di Ustica -, presenta molteplici profili di
interesse civilistico, attinenti la responsabilità civile ex artt. 2043 e ss. c.c., il diritto al risarcimento del danno
parentale jure proprio et jure hereditatis,
ed il decorso del termine prescrizionale dell’azione risarcitoria.
Ma procediamo con ordine.
La
pronuncia della Suprema Corte si inserisce in una complessa vicenda giudiziaria
inerente il disastro aereo, avvenuto il 27 Giugno 1980, tra le isole di Ponza e
di Ustica, che ha provocato la morte delle 81 persone, 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio, che si trovavano a
bordo del DC9-TIGI della società Itavia, precipitato misteriosamente in mare.
La
c.d. strage di Ustica, ha assunto, sin da subito, rilievo penalistico, portando
allo svolgimento di un processo penale conclusosi, tuttavia, con assoluzioni
nel merito ed estinzione dei reati per intervenuta prescrizione (Cass. Pen. n.
9174/2007). La sentenza di legittimità, inoltre, nulla statuisce circa le cause
del disastro, ritenendo non raggiunta la prova, oltre ogni ragionevole dubbio,
che si sia trattato di un’esplosione interna all’aereo, ovvero di un attacco
missilistico, oppure di un cedimento strutturale del DC9-TIGI.
Un
anno dopo il disastro, nel 1981, la società Itavia, proprietaria del velivolo,
cita in giudizio il Ministero dell’Interno, quello della Difesa e quello delle
Infrastrutture e dei Trasporti, per sentirli condannare al risarcimento dei
danni subiti. Il processo civile ha portato alla pronuncia della Suprema Corte
n. 10285 del 05 Maggio 2009, la quale, non solo ha ribadito che il Giudice
civile non può richiamare sic et
simpliciter le risultanze del processo penale, senza tener conto della
diversità di regole probatorie operanti nei due giudizi - “l’oltre ogni
ragionevole dubbio” in sede penale, in luogo del “più probabile che non” in sede civile -, ma ha individuato, a carico
dei Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti convenuti,
una responsabilità omissiva ex art.
2050 c.c., per aver violato l’obbligo giuridico, imposto loro da specifiche
normative, di garantire la sicurezza dei voli e del traffico aereo.
Circa dieci anni dopo il funesto incidente, alcuni
familiari delle vittime, intentano un’azione giudiziaria civile contro la
Presidenza del Consiglio dei Ministri e i Ministeri dell’Interno, della Difesa
e delle Infrastrutture e dei Trasporti presso il Tribunale di Palermo, al fine
di ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito della perdita dei loro
congiunti e di quelli patiti dalle vittime del disastro. La pronuncia di primo
grado, n. 10157 del 01.04.2007, è parzialmente riformata dalla Corte d’Appello
di Palermo, con la sentenza n. 788 del 14 Giugno 2010, contro la quale i Ministeri
della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti - i soli condannati, in
solido, al risarcimento dei danni in entrambi i gradi di giudizio-, propongono
ricorso in Cassazione, rigettato quasi integralmente, se non per quanto attiene
il quantum debeatur, dalla Suprema
Corte, nella sentenza che si offre in commento.
La
rilevanza pubblica assunta dalla pronuncia de
qua attiene, in verità impropriamente, le cause del disastro. La Suprema
Corte, infatti, conferma la ricostruzione illustrata dalla Corte d’Appello che,
con un approfondito e dettagliato esame del quadro probatorio di riferimento,
giunge a ritenere dimostrata la tesi dell’attacco missilistico. Su tali
argomentazioni, la Corte di merito ha fondato la responsabilità, sia ex art. 2043 che ex art. 2050 c.c., del Ministero della Difesa e di quello delle
Infrastrutture e dei Trasporti, per inadempimento dell’obbligo giuridico di
garantire la sicurezza del traffico aereo.
Tralasciando l’evidente
contrasto rilevabile con la pronuncia penale, che non è il caso di esaminare in
questa sede, ciò che qui vuole evidenziarsi è che, in realtà, la Suprema Corte
non sancisce, inequivocabilmente, quale sia la causa della strage di Ustica,
limitandosi a ritenere congrua ed adeguata la motivazione enucleata dal Giudice
di merito. Del resto, il giudizio di legittimità a lei demandato non le avrebbe
consentito di valutare il quadro probatorio ed avvalorare o meno una o l’altra
ricostruzione dei fatti.
Per
gli operatori del diritto, però, la sentenza in esame assume rilievo per aspetti
diversi rispetto a quelli noti all’opinione pubblica, quali, in particolare, il
titolo di responsabilità di cui rispondono i Ministeri convenuti, le
motivazioni sottese al mancato accoglimento dell’eccezione di prescrizione e le
argomentazioni fornite circa il diritto al risarcimento dei danni dei prossimi
congiunti delle vittime, richiesti sia jure
proprio che jure hereditatis.
La
prima questione giuridica affrontata dal Giudice di legittimità attiene
l’eccezione di prescrizione, questione già sollevata in primo grado e non
esaminata, formulata nuovamente in grado di appello e in quella sede ampiamente
analizzata, sebbene dichiarata infondata.
La Corte di Cassazione,
invero, conferma il termine prescrizionale di quindici anni, individuato dalla
Corte di merito, ma in base a motivazioni diverse.
Il Giudice di secondo
grado, effettua il calcolo del termine prescrizionale dopo aver accolto la tesi
del disastro aviatorio colposo, motivandola ampiamente sul piano probatorio,
con plurimi riferimenti alla pronuncia del GOA di Roma del 26.11.2003
(pronuncia di primo grado del processo conclusosi con sentenza Cass. Civ. n.
10285/2009). Orbene, secondo il Giudice di Appello, se la tesi da ritenere “più
probabile che non” è quella di un attacco da parte di altro velivolo, allora si
configura il delitto di disastro aereo colposo a carico dei Ministeri convenuti
e, in applicazione congiunta degli artt. 2947 comma 3 c.c. e 449 c.p., il
termine di prescrizione applicabile è quello di quindici anni, non ancora
maturato al momento della notifica dell’atto introduttivo del giudizio,
risalente al 1990.
Infatti, in virtù del
disposto di cui all’art. 157 c.p., nella formulazione precedente all’entrata in
vigore della legge c.d. ex Cirielli del 2005, applicabile al caso di specie in
quanto disposizione più favorevole rispetto a quella attualmente vigente, il
disastro aereo colposo, disciplinato al comma 2 dell’art. 449 c.p., si
prescrive con il decorso di quindici anni, in quanto punito con pena edittale
non inferiore ad anni dieci di reclusione, e non con il decorso del termine
ventennale, come vuole la normativa vigente. Da qui l’infondatezza
dell’eccezione di prescrizione quinquennale, ai sensi del comma 1 dell’art.
2947 c.c., e l’applicazione del comma 3 dello stesso articolo, in combinato
disposto con gli artt. 157 c.p. (vecchia formulazione) e 449 c.p. comma 2.
Il calcolo, così
effettuato, e l’infondatezza dell’eccezione trovano conferma nella sentenza in
commento. Tuttavia, l’applicazione alla fattispecie del termine di prescrizione
di quindici anni è fondata, secondo la Corte di Cassazione, non sulla
ricostruzione fattuale del disastro – “(il
che sarebbe questione di merito)” –, bensì sulla deduzione formulata dagli
stessi attori circa la plausibilità della tesi dell’attacco missilistico, la
quale sarebbe stata respinta dal giudice di merito, se ritenuta non fondata.
Per quanto attiene il
titolo di responsabilità civile imputato ai Ministeri condannati a risarcire i
danni, la Suprema Corte ha il pregio di confermare quanto ampiamente motivato
dalla Corte di Appello di Palermo, ovvero la loro responsabilità ai sensi sia dell’art.
2043 c.c., che del successivo art. 2050 c.c.
Invero, l’art. 2043
c.c., che apre il Titolo IX del Libro IV del Codice civile, è una clausola generale
dell’ordinamento con finalità perequative e riparatorie, volta a ripristinare
l’equilibrio alterato dalla commissione di un illecito a danno di terzi, ai
quali l’agente non è legato da alcun preesistente rapporto obbligatorio o,
comunque, giuridico.
Affinché possa
ritenersi applicabile la suddetta norma, è necessario che la condotta posta in
essere abbia natura illecita, in quanto lesiva di un interesse giuridico
ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento, che la stessa cagioni un danno
ingiusto (non jure), legato alla
condotta da un nesso di causalità, e, infine, che la medesima condotta sia
imputabile all’agente almeno a titolo di colpa.
Nel caso in esame, la
condotta addebitata agli organi governativi assume natura omissiva, in termini
di omesso controllo e omessa vigilanza, ed assume rilievo giuridico in quanto
sussiste una norma cautelare che impone ai Ministeri convenuti di garantire e
vigilare sulla sicurezza della navigazione aerea civile (D.P.R. n. 1477 e 1478
del 18 Novembre 1965; L. n. 38 del 16 Febbraio 1977; L. n. 635 del 22 Dicembre 1979).
La sentenza in esame precisa, infatti, che, affinché una condotta omissiva
rilevi come fonte di responsabilità civile, è necessario che il comportamento
omesso sia imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da un obbligo
derivante al soggetto dalla propria posizione di garanzia, e che, una volta
provata l’esistenza dell’obbligo e dimostrato che l’evento causato rientra tra
quelli che la norma cautelare è volta ad evitare, a nulla vale che l’agente
dimostri l’ignoranza in concreto del pericolo del verificarsi dell’evento, come
affermato dalle Amministrazioni ricorrenti.
L’omissione, contestata
in virtù della sussistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo
a carico dei Ministeri convenuti, è fonte di responsabilità ex art. 2043 c.c.; tuttavia, poiché “l’attività volta a garantire la sicurezza
della navigazione aerea civile è pericolosa, quando detta navigazione risulti
esercitata in condizioni di anormalità o di pericolo” ( In senso conforme Cass. Civ. n. 10551 del 19 Luglio
2002), i Ministeri convenuti rispondono anche ai sensi dell’art. 2050 c.c.,
laddove le condizioni di anomalia e di pericolo possano ravvisarsi, secondo la
Corte di merito, nella presenza di un aereo non identificato sulla stessa rotta
del DC9-TIGI, e i Ministeri non abbiano fornito alcuna prova liberatoria a
riguardo.
Il trasporto aereo non
può ritenersi, invero, potenzialmente pericoloso in sé, trattandosi di
trasporto ampiamente diffuso che, se esercitato in conformità alle prescrizioni
normative ed in condizioni non anomale, non può configurarsi come attività
pericolosa, né su un piano oggettivo, né in virtù dei mezzi adoperati.
È necessario, infatti,
distinguere tra “pericolosità della
condotta e pericolosità dell’attività in quanto tale, nel senso che la prima
riguarda un’attività normalmente innocua, che assume i caratteri della
pericolosità a causa della condotta imprudente o negligente dell’operatore, ed
è elemento costitutivo della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.; la
seconda concerne un’attività che, invece, è potenzialmente dannosa di per sé
per l’alta percentuale di danni che può provocare in ragione della sua natura o
della tipologia di mezzi adoperati e rappresenta una componente della responsabilità
disciplinata dall’art. 2050 cod. civ.”( In senso conforme Cass. Civ. n. 20357
del 21 ottobre 2005).
Confermato il doppio titolo
di responsabilità, la Suprema Corte passa al vaglio della doglianza attinente
il mancato riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dai
parenti delle vittime, non jure proprio,
bensì jure hereditatis.
Preliminarmente, è
necessario ricostruire brevemente la natura dei danni dei quali i familiari
delle vittime di un illecito possono chiedere e ottenere il risarcimento.
Il congiunto di persona
deceduta a causa di condotte illecite di terzi può richiedere all’agente
responsabile il risarcimento dei danni subiti personalmente dal verificarsi
dell’evento lesivo - da qui danni jure
proprio -, sia in termini patrimoniali che non patrimoniali.
Per quanto attiene il
primo profilo, ciò che rileva è la perdita delle entrate economiche, in termini
di sovvenzioni, salari, contributi, sussidi o qualsiasi utilità economica con
cui il soggetto deceduto provvedeva ai suoi congiunti, in aggiunta alla perdita
di utilità patrimoniali future che la vittima dell’illecito avrebbe destinato
al mantenimento dei propri familiari, commisurata alla sua aspettativa di vita.
In merito ai danni non
patrimoniali rivendicabili dai familiari delle vittime jure proprio, si suole definirli danni da perdita di rapporto
parentale, riconosciuti ai congiunti ai sensi dell’art. 2059 c.c., nella sua
recente rilettura costituzionalmente orientata (cfr. Cass. Civ. S.U. n.
26972/2008), come lesione cagionata ai diritti inviolabili della famiglia, come
causa di sofferenza morale ed interiore patita dal familiare della vittima, per
la privazione del rapporto personale con il proprio caro. Nel caso che ci
occupa, non vi è dubbio, né nella pronuncia di Appello, né nelle statuizioni
della Corte di legittimità, circa la sussistenza del diritto dei familiari
delle vittime della strage di Ustica al risarcimento dei danni patrimoniali e
non, richiesti jure proprio, in
qualità di eredi e/o familiari del defunto. Anche l’onere probatorio risulta
pienamente assolto, mediante prova del rapporto parentale e/o del legame
affettivo e della comunione di vita con il congiunto; particolare rilievo è,
inoltre, attribuito anche alle modalità violente ed improvvise della morte, nonché
ai continui tentativi, perpetrati dalle Amministrazioni ricorrenti, di
ingenerare confusione e ritardi nella conoscenza delle vere cause del disastro.
Tuttavia, la Corte di
Appello di Palermo, suffragata dalla Corte di Cassazione, non riconosce ai
familiari della strage il diritto al risarcimento dei danni vantati jure hereditatis, ovvero i danni subiti
direttamente dalle vittime dell’incidente aereo, entrati nella disponibilità
del loro patrimonio, dunque trasmissibili ai loro eredi.
Al riguardo giova
ricordare una distinzione elaborata dalla dottrina più illuminata, e poi fatta
propria dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il danno da morte, può
assumere due diverse forme. Nel caso in cui la vittima muoia a causa di
condotte illecite terze, dopo un lasso di tempo apprezzabile, sebbene minimo, dalla
lesione subita, durante il quale ha assunto consapevolezza e coscienza della
fine della propria vita, soffrendo intensamente, sia moralmente che
fisicamente, allora il pregiudizio subito è risarcibile ai suoi eredi jure successionis,
quale danno c.d. biologico terminale, lesivo del diritto alla salute della
vittima. Diversa è l’ipotesi in cui la morte sia avvenuta contestualmente alla
lesione, ovvero senza interposizione di un arco temporale rilevante, ovvero
qualora non sia stata raggiunta la prova della decorrenza dello stesso: in tal
caso il danno da morte immediata, c.d. tanatologico, non è risarcibile sul
piano biologico, in quanto la morte non si configura come massima lesione del
diritto alla salute, bensì come lesione del diritto alla vita, impedendo alla
vittima di acquisire il diritto al risarcimento dei danni - in quanto ormai privata
della capacità giuridica -, dunque di accrescere il proprio patrimonio,
trasmissibile agli eredi, e tenuto anche debitamente conto della funzione non sanzionatoria
o punitiva, ma riparatoria della tutela risarcitoria (cfr. Cass. Civ. S. U. n. 26972
dell’11 Novembre 2008).
Tuttavia, qualora la
morte sopraggiunga improvvisamente e senza alcun intervallo temporale
apprezzabile dalla lesione, pur non ritenendo risarcibile jure hereditatis il danno biologico in termini di danno
tanatologico, la giurisprudenza di legittimità riconosce la risarcibilità del
danno morale, c.d. catastrofale, come sofferenza morale e psichica vissuta
dalla vittima di lesioni letali, che trascorre i suoi ultimi istanti di vita in
lucida agonia, consapevole della fine imminente, sempre che gli eredi riescano ad
assolvere il relativo onere probatorio (cfr. Cass. Civ. 28423 del 2008).
Ebbene, mancando nel
caso di specie la prova della lucida attesa della morte da parte delle vittime,
morte violentemente ed improvvisamente, la Corte di Cassazione, nella sentenza
in commento, conferma quanto già sancito dalla Corte di Appello, ovvero che il diritto
al risarcimento dei danni jure
hereditatis non sussiste a favore
degli odierni resistenti, neppure nella forma del c.d. danno catastrofale.
“… in caso di
morte della vittima a poche ore di distanza dal verificarsi di un sinistro, il
risarcimento del danno catastrofale – ossia del danno conseguente alla
sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste allo spegnersi della
propria vita – può essere riconosciuto agli eredi, a titolo di danno morale,
solo a condizione che sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al
momento della morte. Pertanto, in assenza di prova della sussistenza di uno
stato di coscienza della persona nel breve intervallo tra il sinistro e la
morte, la lesione del diritto alla vita non è suscettibile di risarcimento,
neppure sotto il profilo del danno biologico, a favore del soggetto che è
morto, essendo inconcepibile l’acquisizione in capo a lui di un diritto che
deriva dal fatto stesso della morte; e, d’altra parte, in considerazione della
natura non sanzionatoria, ma solo
riparatoria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai congiunti
spetta in questo caso il solo risarcimento conseguente alla lesione della
possibilità di godere del rapporto parentale con la persona defunta”.
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