lunedì 4 marzo 2013

La strage di Ustica. Le cause, i danni risarcibili, i termini di prescrizione.


di Alessia Ventura

CASSAZIONE CIVILE – Sez. III – 28 Gennaio 2013 n. 1871 – Pres. Uccella – Est. D’Alessandro (Cassa con rinvio la sentenza della Corte d’Appello Palermo n. 788 del 14 Giugno 2010)

La sentenza che si offre in commento, oltre ad aver ricevuto una notevole attenzione mediatica - trattandosi di pronuncia inerente il risarcimento del danno a carico del Ministero della Difesa e di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, a favore dei parenti delle vittime della c.d. strage di Ustica -, presenta molteplici profili di interesse civilistico, attinenti la responsabilità civile ex artt. 2043 e ss. c.c., il diritto al risarcimento del danno parentale jure proprio et jure hereditatis, ed il decorso del termine prescrizionale dell’azione risarcitoria.
Ma procediamo con ordine.
            La pronuncia della Suprema Corte si inserisce in una complessa vicenda giudiziaria inerente il disastro aereo, avvenuto il 27 Giugno 1980, tra le isole di Ponza e di Ustica, che ha provocato la morte delle 81 persone, 77 passeggeri  e 4 membri dell’equipaggio, che si trovavano a bordo del DC9-TIGI della società Itavia, precipitato misteriosamente in mare.
            La c.d. strage di Ustica, ha assunto, sin da subito, rilievo penalistico, portando allo svolgimento di un processo penale conclusosi, tuttavia, con assoluzioni nel merito ed estinzione dei reati per intervenuta prescrizione (Cass. Pen. n. 9174/2007). La sentenza di legittimità, inoltre, nulla statuisce circa le cause del disastro, ritenendo non raggiunta la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, che si sia trattato di un’esplosione interna all’aereo, ovvero di un attacco missilistico, oppure di un cedimento strutturale del DC9-TIGI.
            Un anno dopo il disastro, nel 1981, la società Itavia, proprietaria del velivolo, cita in giudizio il Ministero dell’Interno, quello della Difesa e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti. Il processo civile ha portato alla pronuncia della Suprema Corte n. 10285 del 05 Maggio 2009, la quale, non solo ha ribadito che il Giudice civile non può richiamare sic et simpliciter le risultanze del processo penale, senza tener conto della diversità di regole probatorie operanti nei due giudizi - “l’oltre ogni ragionevole dubbio” in sede penale, in luogo del “più probabile che non”  in sede civile -, ma ha individuato, a carico dei Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti convenuti, una responsabilità omissiva ex art. 2050 c.c., per aver violato l’obbligo giuridico, imposto loro da specifiche normative, di garantire la sicurezza dei voli e del traffico aereo.

Circa dieci anni dopo il funesto incidente, alcuni familiari delle vittime, intentano un’azione giudiziaria civile contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri e i Ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti presso il Tribunale di Palermo, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito della perdita dei loro congiunti e di quelli patiti dalle vittime del disastro. La pronuncia di primo grado, n. 10157 del 01.04.2007, è parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 788 del 14 Giugno 2010, contro la quale i Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti - i soli condannati, in solido, al risarcimento dei danni in entrambi i gradi di giudizio-, propongono ricorso in Cassazione, rigettato quasi integralmente, se non per quanto attiene il quantum debeatur, dalla Suprema Corte, nella sentenza che si offre in commento.
            La rilevanza pubblica assunta dalla pronuncia de qua attiene, in verità impropriamente, le cause del disastro. La Suprema Corte, infatti, conferma la ricostruzione illustrata dalla Corte d’Appello che, con un approfondito e dettagliato esame del quadro probatorio di riferimento, giunge a ritenere dimostrata la tesi dell’attacco missilistico. Su tali argomentazioni, la Corte di merito ha fondato la responsabilità, sia ex art. 2043 che ex art. 2050 c.c., del Ministero della Difesa e di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, per inadempimento dell’obbligo giuridico di garantire la sicurezza del traffico aereo.
Tralasciando l’evidente contrasto rilevabile con la pronuncia penale, che non è il caso di esaminare in questa sede, ciò che qui vuole evidenziarsi è che, in realtà, la Suprema Corte non sancisce, inequivocabilmente, quale sia la causa della strage di Ustica, limitandosi a ritenere congrua ed adeguata la motivazione enucleata dal Giudice di merito. Del resto, il giudizio di legittimità a lei demandato non le avrebbe consentito di valutare il quadro probatorio ed avvalorare o meno una o l’altra ricostruzione dei fatti.
            Per gli operatori del diritto, però, la sentenza in esame assume rilievo per aspetti diversi rispetto a quelli noti all’opinione pubblica, quali, in particolare, il titolo di responsabilità di cui rispondono i Ministeri convenuti, le motivazioni sottese al mancato accoglimento dell’eccezione di prescrizione e le argomentazioni fornite circa il diritto al risarcimento dei danni dei prossimi congiunti delle vittime, richiesti sia jure proprio che jure hereditatis.
            La prima questione giuridica affrontata dal Giudice di legittimità attiene l’eccezione di prescrizione, questione già sollevata in primo grado e non esaminata, formulata nuovamente in grado di appello e in quella sede ampiamente analizzata, sebbene dichiarata infondata.
La Corte di Cassazione, invero, conferma il termine prescrizionale di quindici anni, individuato dalla Corte di merito, ma in base a motivazioni diverse.
Il Giudice di secondo grado, effettua il calcolo del termine prescrizionale dopo aver accolto la tesi del disastro aviatorio colposo, motivandola ampiamente sul piano probatorio, con plurimi riferimenti alla pronuncia del GOA di Roma del 26.11.2003 (pronuncia di primo grado del processo conclusosi con sentenza Cass. Civ. n. 10285/2009). Orbene, secondo il Giudice di Appello, se la tesi da ritenere “più probabile che non” è quella di un attacco da parte di altro velivolo, allora si configura il delitto di disastro aereo colposo a carico dei Ministeri convenuti e, in applicazione congiunta degli artt. 2947 comma 3 c.c. e 449 c.p., il termine di prescrizione applicabile è quello di quindici anni, non ancora maturato al momento della notifica dell’atto introduttivo del giudizio, risalente al 1990.
Infatti, in virtù del disposto di cui all’art. 157 c.p., nella formulazione precedente all’entrata in vigore della legge c.d. ex Cirielli del 2005, applicabile al caso di specie in quanto disposizione più favorevole rispetto a quella attualmente vigente, il disastro aereo colposo, disciplinato al comma 2 dell’art. 449 c.p., si prescrive con il decorso di quindici anni, in quanto punito con pena edittale non inferiore ad anni dieci di reclusione, e non con il decorso del termine ventennale, come vuole la normativa vigente. Da qui l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione quinquennale, ai sensi del comma 1 dell’art. 2947 c.c., e l’applicazione del comma 3 dello stesso articolo, in combinato disposto con gli artt. 157 c.p. (vecchia formulazione) e 449 c.p. comma 2.
Il calcolo, così effettuato, e l’infondatezza dell’eccezione trovano conferma nella sentenza in commento. Tuttavia, l’applicazione alla fattispecie del termine di prescrizione di quindici anni è fondata, secondo la Corte di Cassazione, non sulla ricostruzione fattuale del disastro – “(il che sarebbe questione di merito)” –, bensì sulla deduzione formulata dagli stessi attori circa la plausibilità della tesi dell’attacco missilistico, la quale sarebbe stata respinta dal giudice di merito, se ritenuta non fondata.
Per quanto attiene il titolo di responsabilità civile imputato ai Ministeri condannati a risarcire i danni, la Suprema Corte ha il pregio di confermare quanto ampiamente motivato dalla Corte di Appello di Palermo, ovvero la loro responsabilità ai sensi sia dell’art. 2043 c.c., che del successivo art. 2050 c.c.
Invero, l’art. 2043 c.c., che apre il Titolo IX del Libro IV del Codice civile, è una clausola generale dell’ordinamento con finalità perequative e riparatorie, volta a ripristinare l’equilibrio alterato dalla commissione di un illecito a danno di terzi, ai quali l’agente non è legato da alcun preesistente rapporto obbligatorio o, comunque, giuridico.
Affinché possa ritenersi applicabile la suddetta norma, è necessario che la condotta posta in essere abbia natura illecita, in quanto lesiva di un interesse giuridico ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento, che la stessa cagioni un danno ingiusto (non jure), legato alla condotta da un nesso di causalità, e, infine, che la medesima condotta sia imputabile all’agente almeno a titolo di colpa.
Nel caso in esame, la condotta addebitata agli organi governativi assume natura omissiva, in termini di omesso controllo e omessa vigilanza, ed assume rilievo giuridico in quanto sussiste una norma cautelare che impone ai Ministeri convenuti di garantire e vigilare sulla sicurezza della navigazione aerea civile (D.P.R. n. 1477 e 1478 del 18 Novembre 1965; L. n. 38 del 16 Febbraio 1977; L. n. 635 del 22 Dicembre 1979). La sentenza in esame precisa, infatti, che, affinché una condotta omissiva rilevi come fonte di responsabilità civile, è necessario che il comportamento omesso sia imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da un obbligo derivante al soggetto dalla propria posizione di garanzia, e che, una volta provata l’esistenza dell’obbligo e dimostrato che l’evento causato rientra tra quelli che la norma cautelare è volta ad evitare, a nulla vale che l’agente dimostri l’ignoranza in concreto del pericolo del verificarsi dell’evento, come affermato dalle Amministrazioni ricorrenti.
L’omissione, contestata in virtù della sussistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo a carico dei Ministeri convenuti, è fonte di responsabilità ex art. 2043 c.c.; tuttavia, poiché “l’attività volta a garantire la sicurezza della navigazione aerea civile è pericolosa, quando detta navigazione risulti esercitata in condizioni di anormalità o di pericolo” ( In senso conforme Cass. Civ. n. 10551 del 19 Luglio 2002), i Ministeri convenuti rispondono anche ai sensi dell’art. 2050 c.c., laddove le condizioni di anomalia e di pericolo possano ravvisarsi, secondo la Corte di merito, nella presenza di un aereo non identificato sulla stessa rotta del DC9-TIGI, e i Ministeri non abbiano fornito alcuna prova liberatoria a riguardo.
Il trasporto aereo non può ritenersi, invero, potenzialmente pericoloso in sé, trattandosi di trasporto ampiamente diffuso che, se esercitato in conformità alle prescrizioni normative ed in condizioni non anomale, non può configurarsi come attività pericolosa, né su un piano oggettivo, né in virtù dei mezzi adoperati.  
È necessario, infatti, distinguere tra “pericolosità della condotta e pericolosità dell’attività in quanto tale, nel senso che la prima riguarda un’attività normalmente innocua, che assume i caratteri della pericolosità a causa della condotta imprudente o negligente dell’operatore, ed è elemento costitutivo della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.; la seconda concerne un’attività che, invece, è potenzialmente dannosa di per sé per l’alta percentuale di danni che può provocare in ragione della sua natura o della tipologia di mezzi adoperati e rappresenta una componente della responsabilità disciplinata dall’art. 2050 cod. civ.”( In senso conforme Cass. Civ. n. 20357 del 21 ottobre 2005).
Confermato il doppio titolo di responsabilità, la Suprema Corte passa al vaglio della doglianza attinente il mancato riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dai parenti delle vittime, non jure proprio, bensì jure hereditatis.
Preliminarmente, è necessario ricostruire brevemente la natura dei danni dei quali i familiari delle vittime di un illecito possono chiedere e ottenere il risarcimento.
Il congiunto di persona deceduta a causa di condotte illecite di terzi può richiedere all’agente responsabile il risarcimento dei danni subiti personalmente dal verificarsi dell’evento lesivo - da qui danni jure proprio -, sia in termini patrimoniali che non patrimoniali.
Per quanto attiene il primo profilo, ciò che rileva è la perdita delle entrate economiche, in termini di sovvenzioni, salari, contributi, sussidi o qualsiasi utilità economica con cui il soggetto deceduto provvedeva ai suoi congiunti, in aggiunta alla perdita di utilità patrimoniali future che la vittima dell’illecito avrebbe destinato al mantenimento dei propri familiari, commisurata alla sua aspettativa di vita.
In merito ai danni non patrimoniali rivendicabili dai familiari delle vittime jure proprio, si suole definirli danni da perdita di rapporto parentale, riconosciuti ai congiunti ai sensi dell’art. 2059 c.c., nella sua recente rilettura costituzionalmente orientata (cfr. Cass. Civ. S.U. n. 26972/2008), come lesione cagionata ai diritti inviolabili della famiglia, come causa di sofferenza morale ed interiore patita dal familiare della vittima, per la privazione del rapporto personale con il proprio caro. Nel caso che ci occupa, non vi è dubbio, né nella pronuncia di Appello, né nelle statuizioni della Corte di legittimità, circa la sussistenza del diritto dei familiari delle vittime della strage di Ustica al risarcimento dei danni patrimoniali e non, richiesti jure proprio, in qualità di eredi e/o familiari del defunto. Anche l’onere probatorio risulta pienamente assolto, mediante prova del rapporto parentale e/o del legame affettivo e della comunione di vita con il congiunto; particolare rilievo è, inoltre, attribuito anche alle modalità violente ed improvvise della morte, nonché ai continui tentativi, perpetrati dalle Amministrazioni ricorrenti, di ingenerare confusione e ritardi nella conoscenza delle vere cause del disastro.
Tuttavia, la Corte di Appello di Palermo, suffragata dalla Corte di Cassazione, non riconosce ai familiari della strage il diritto al risarcimento dei danni vantati jure hereditatis, ovvero i danni subiti direttamente dalle vittime dell’incidente aereo, entrati nella disponibilità del loro patrimonio, dunque trasmissibili ai loro eredi.
Al riguardo giova ricordare una distinzione elaborata dalla dottrina più illuminata, e poi fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il danno da morte, può assumere due diverse forme. Nel caso in cui la vittima muoia a causa di condotte illecite terze, dopo un lasso di tempo apprezzabile, sebbene minimo, dalla lesione subita, durante il quale ha assunto consapevolezza e coscienza della fine della propria vita, soffrendo intensamente, sia moralmente che fisicamente, allora il pregiudizio subito è risarcibile ai suoi eredi jure successionis, quale danno c.d. biologico terminale, lesivo del diritto alla salute della vittima. Diversa è l’ipotesi in cui la morte sia avvenuta contestualmente alla lesione, ovvero senza interposizione di un arco temporale rilevante, ovvero qualora non sia stata raggiunta la prova della decorrenza dello stesso: in tal caso il danno da morte immediata, c.d. tanatologico, non è risarcibile sul piano biologico, in quanto la morte non si configura come massima lesione del diritto alla salute, bensì come lesione del diritto alla vita, impedendo alla vittima di acquisire il diritto al risarcimento dei danni - in quanto ormai privata della capacità giuridica -, dunque di accrescere il proprio patrimonio, trasmissibile agli eredi, e tenuto anche debitamente conto della funzione non sanzionatoria o punitiva, ma riparatoria della tutela risarcitoria (cfr. Cass. Civ. S. U. n. 26972 dell’11 Novembre 2008).
Tuttavia, qualora la morte sopraggiunga improvvisamente e senza alcun intervallo temporale apprezzabile dalla lesione, pur non ritenendo risarcibile jure hereditatis il danno biologico in termini di danno tanatologico, la giurisprudenza di legittimità riconosce la risarcibilità del danno morale, c.d. catastrofale, come sofferenza morale e psichica vissuta dalla vittima di lesioni letali, che trascorre i suoi ultimi istanti di vita in lucida agonia, consapevole della fine imminente, sempre che gli eredi riescano ad assolvere il relativo onere probatorio (cfr. Cass. Civ. 28423 del 2008).
Ebbene, mancando nel caso di specie la prova della lucida attesa della morte da parte delle vittime, morte violentemente ed improvvisamente, la Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, conferma quanto già sancito dalla Corte di Appello, ovvero che il diritto al risarcimento dei danni jure hereditatis  non sussiste a favore degli odierni resistenti, neppure nella forma del c.d. danno catastrofale.

“… in caso di morte della vittima a poche ore di distanza dal verificarsi di un sinistro, il risarcimento del danno catastrofale – ossia del danno conseguente alla sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita – può essere riconosciuto agli eredi, a titolo di danno morale, solo a condizione che sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della morte. Pertanto, in assenza di prova della sussistenza di uno stato di coscienza della persona nel breve intervallo tra il sinistro e la morte, la lesione del diritto alla vita non è suscettibile di risarcimento, neppure sotto il profilo del danno biologico, a favore del soggetto che è morto, essendo inconcepibile l’acquisizione in capo a lui di un diritto che deriva dal fatto stesso della morte; e, d’altra parte, in considerazione della natura  non sanzionatoria, ma solo riparatoria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai congiunti spetta in questo caso il solo risarcimento conseguente alla lesione della possibilità di godere del rapporto parentale con la persona defunta”.               

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