mercoledì 18 gennaio 2012

Revoca della donazione per ingratitudine del donatario.

di Giovanni Miccianza

La donazione è il contratto con il quale una persona, per mero spirito di liberalità, arricchisce l’altra attribuendole un diritto proprio già presente nel suo patrimonio o assumendo verso la stessa una obbligazione.
L’art. 800 c.c. dispone che “la donazione può essere revocata per ingratitudine o per sopravvenienza di figli”; gli artt. 801 e 802 c.c. disciplinano la revocazione della donazione per ingratitudine.
In via preliminare va osservato che il donatario non ha alcun dovere giuridico positivo di gratitudine nei confronti del donante; in realtà la norma rinviene la sua ratio nella volontà del legislatore di sanzionare il comportamento di atti considerati riprovevoli dalla coscienza morale, alla quale ripugna che il responsabile di siffatti atti possa conservare il beneficio della liberalità.
L’art. 801 c.c. prevede che la revocazione della donazione per ingratitudine può essere proposta soltanto in alcune ipotesi tassative e precisamente nel caso di condotte del donatario di cui ai nn. 1, 2 e 3 dell’art. 463 c.c. quali omicidio o tentato omicidio dell’ereditando o del di lui coniuge, di un discendente o un ascedente; un fatto al quale la legge dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio; l’aver denunziato calunniosamente una delle dette persone per un reato punibile con l’ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni (in questo caso, tuttavia, perché possa operare la revocazione è necessario che il reato di calunnia sia stato accertato con sentenza passata in giudicato). Infine, l’art. 801 c.c. prevede l’ulteriore ipotesi consistente nell’aver gravemente ingiuriato il donante o nell’aver dolosamente arrecato grave pregiudizio al suo patrimonio ovvero, infine, il rifiuto indebito alla corresponsione degli alimenti dovutigli.
La nozione di ingratitudine possiede una connotazione tecnica ed è in parte coincidente con i casi che l’art. 463 c.c. annovera tra le situazioni dalle quali scaturisce l’indegnità a succedere. La Suprema Corte in varie occasioni ha affermato che si tratta di “un’azione consapevole e volontaria del donatario direttamente volta contro il patrimonio morale del donante, risolvendosi in una manifestazione di perversa animosità verso il donante idonea a giustificare il pentimento rispetto al compiuto atto di liberalità” (Cass., Sez. II, n. 10614/1990; Cass., Sez. II, n. 8445/1990); azione che può estrinsecarsi non soltanto  nel proferimento reiterato e costante di espressioni ingiuriose, ma anche in condotte materiali quali la sottrazione fraudolenta dei frutti di beni donati quando il donante se ne sia riservato l’usufrutto; nell’adulterio anche se l’aver intrecciato una nuova relazione può non costituire causa di revocazione quando le modalità non siano di per sé ingiuriose.
Oltre al dolo del donatario, è poi necessario valutare la gravità della ingiuria in relazione alle concrete circostanze sociali ed ambientali delle parti; per la giurisprudenza tale gravità va dedotta dall’evidenza di “un durevole sentimento di disistima” non desumibile da singoli episodi negativamente qualificabili (Cass., Sez. II, n. 17188/2008).
Partendo proprio da tale assunto la Suprema Corte ha di recente affermato che non è possibile ravvisare gli estremi dell’ingratitudine nel comportamento del figlio donatario, il quale, di fronte alla sopravvenuta intollerabilità della convivenza tra i suoi genitori (donanti) e nella pendenza del giudizio di separazione personale, inviti il padre a lasciare l’immobile di sua proprietà, acquistato con il danaro ricevuto dalla liberalità paterna e materna, destinato a casa familiare.
Un tale comportamento non costituisce atteggiamento di disistima delle qualità morali del genitore donante o mancanza di rispetto nei suoi confronti, né un affronto animoso contrastante con il senso di riconoscenza e di solidarietà che, secondo la coscienza comune, deve improntare il comportamento del donatario; piuttosto, si tratta di una presa d’atto, da parte del figlio, della frattura tra i suoi genitori, derivante dal venir meno dell’affectio coniugalis e, quindi, del sopravvenire di una condizione tale da rendere incompatibile, allo stato, la prosecuzione della convivenza di entrambi i donanti nell’abitazione acquistata con il danaro ricevuto in liberalità (cfr. Cass., Sez. II, 31 marzo 2011, n. 7487).
Il comportamento del donatario è stato valutato come una presa d’atto di una condizione, creatasi tra i propri genitori, tale da rendere incompatibile la prosecuzione della convivenza di entrambi i donanti nell’abitazione acquistata con il danaro dagli stessi ricevuto in liberalità.
Alla luce di quanto esposto, un comportamento in tal senso posto in essere dal figlio donatario non rientra tra gli atti (tipici), ritenuti riprovevoli dalla coscienza sociale, che possono legittimare il donante ad agire in giudizio per la restituzione della liberalità, ma è la conseguenza del sopravvenire di una condizione tale da rende incompatibile la prosecuzione della convivenza di entrambi i donatari sotto lo stesso tetto, che può legittimare il figlio donatario ad allontanare uno dei genitori dalla abitazione familiare.   

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