lunedì 23 gennaio 2012

Proposta irrevocabile, opzione e prelazione: le conseguenze della distruzione o della alienazione a terzi del bene oggetto del contratto.

di Raffaele Meola

Nell’ambito dell’autonomia negoziale, le parti possono arrivare alla stipulazione di un contratto attraverso il classico schema proposta-accettazione ma, anche, raggiungendo l’accordo definitivo per gradi, attraverso una più complessa fase procedimentale. Si inseriscono in questo discorso la proposta irrevocabile, l’opzione e la prelazione (legale o convenzionale).
In forza dell’art. 1329 del codice civile, se il soggetto proponente si è obbligato a mantenere ferma, per un determinato periodo di tempo, la proposta, la revoca è senza effetto. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un caso in cui il proponente si autolimita, privandosi del potere di revoca della proposta. Due sono le teorie principali su questo istituto: la teoria unitaria e quella del doppio negozio.
Secondo la prima, la proposta irrevocabile non è altro che un negozio unilaterale a carattere procedimentale, con cui il proponente tiene ferma la proposta per un certo tempo e l’altra parte è libera o meno di accettare.
Secondo la teoria del doppio contratto, invece, accanto alla proposta semplice c’è un altro negozio, volto a togliere, per un determinato periodo di tempo, efficacia al potere di revoca (in questo caso però, è difficile spiegare come mai la proposta resta ferma nonostante la morte o sopravvenuta incapacità del proponente, ex 1329 cpv).
Il problema principale, però, sorge nel caso in cui manchi il termine di irrevocabilità della proposta.
Anche qui, la dottrina è divisa.
Secondo alcuni, la proposta irrevocabile priva del termine si convertirebbe in proposta semplice. Secondo altri (basandosi sul secondo comma dell’art. 1331 del codice civile), il termine, se mancante, dovrebbe essere fissato dal giudice (questa teoria non tiene, però, conto del fatto che il capoverso del 1331 rappresenta un’eccezione rispetto alla regola generale che prevede la non ingerenza del giudice).
La tesi più corretta pare essere quella secondo cui, in mancanza di termine, si applica il secondo comma dell’art. 1326 c.c., per cui, quando non viene stabilito il termine, la proposta è irrevocabile nel termine ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi, poiché la clausola di irrevocabilità non fa venire meno il fatto che si tratti comunque di una proposta contrattuale
In caso di vendita o distruzione del bene, durante la pendenza della proposta (irrevocabile), l’unico rimedio giurisdizionale che ha a disposizione il soggetto leso è quello di chiedere il risarcimento del danno, per responsabilità precontrattuale, ex 1337 c.c., in quanto viene violato il principio secondo cui le parti, nell’ambito delle trattative e della formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.
L’opzione, invece, è il contratto (questa è la principale differenza con la proposta irrevocabile), attraverso cui le parti convengono che una di esse  rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno. In questo caso, la dichiarazione con cui ci si vincola è considerata quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’articolo 1329 (si badi bene: l’opzione è, in ogni caso, un contratto e dunque la portata di questo inciso va letto nel senso che la revoca è senza effetto e la parte rimane vincolata alla propria dichiarazione).
L’opzione è, normalmente, onerosa (l’opzionario paga il c.d. “premio” al proponente) ma può essere anche gratuita, senza che sia necessaria la forma donativa, in quanto l’interesse è in re ipsa e, dunque, non va nemmeno provato.
Il contratto di opzione deve racchiudere in sé lo schema contrattuale, in quanto l’eventuale dichiarazione positiva dell’opzionario perfeziona il contratto.
L’opzione viene spesso accostata al preliminare ma le differenze sono nette.
Nell’opzione, infatti, la stipula del contratto definitivo è incerta, dipendendo essa dalla volontà dell’opzionario, mentre nel caso di preliminare è certa, in quanto, in caso in cui una delle parti non volesse concludere il definitivo, arriverebbe in soccorso dell’altra l’art 2932 c.c.
Le differenze sembrano sfumare se si confronta l’opzione con il preliminare unilaterale.
A ben vedere, però, anche in questo caso, esistono delle differenze, poiché, come già evidenziato in precedenza, la dichiarazione dell’opzionario perfeziona il contratto, mentre, in caso di preliminare unilaterale, la dichiarazione di una parte non conclude il contratto, dovendosi, comunque, procedere alla stipula del definitivo.
Si riscontrano, pertanto, nell’opzione due fasi (contratto di opzione e dichiarazione dell’opzionario che perfeziona il contratto) mentre nel preliminare unilaterale le fasi sono tre (conclusione del preliminare, dichiarazione di voler concludere il definitivo, stipula del definitivo).
Inoltre, a differenza del preliminare, non è possibile trascrivere il contratto d’opzione.
In capo all’opzionario, in definitiva, sorge un diritto potestativo, con la possibilità di scegliere se concludere o meno il contratto.
Il termine di accettazione (che nell’analisi della proposta irrevocabile ci ha dato moltissimi problemi), se non espressamente indicato, può essere stabilito dal giudice (secondo comma dell’art. 1331 c.c.).
Anche in questo caso, se il concedente aliena o distrugge il bene oggetto di opzione, l’unica via da seguire, per l’opzionario, soggetto leso, è quella del risarcimento del danno precontrattuale (limitato all’interesse negativo), ex 1337, in quanto tra concedente ed opzionario sorge un’obbligazione di carattere personale. La responsabilità, inoltre, è solo precontrattuale, poiché, a differenza del contratto preliminare, il contratto definitivo è solo eventuale e nulla rileva la maggiore o minore probabilità dell’esercizio del diritto di opzione.
Passando alla prelazione, bisogna subito precisare che essa si distingue in prelazione convenzionale e legale.
La prima è il contratto con cui una parte (promittente) decide di preferire, a parità di condizioni, rispetto a terzi, un soggetto (prelazionario), qualora in futuro decida di avvenire ad una determinata contrattazione, ad es. la vendita della propria abitazione.
In capo al promittente sorgono due obblighi: il primo, a carattere positivo (facere), di comunicare al prelazionario l’intenzione di concludere il contratto a determinate condizioni (denuntiatio) ed il secondo, a carattere negativo (non facere), di non concludere il contratto con terzi prima od in pendenza della denuntiatio.
Secondo un’altra tesi, invece, il patto di prelazione, ad es. di vendita, sarebbe un contratto preliminare unilaterale, con contenuto (per relationem) coincidente con le condizioni di acquisto offerte dal terzo e condizionato alla volontà del promittente di addivenire alla vendita.
La denuntiatio, secondo questa impostazione, sarebbe, quindi, una proposta irrevocabile di concludere il contratto, che il prelazionario sarebbe libero o meno di accettare.
Secondo la tesi più corretta, però, la denuntiatio è, generalmente (potendo anche essere una proposta), un invito ad offrire, atto (non formale) di comunicazione al prelazionario dell’intenzione di concludere il contratto alle condizioni offerto dal terzo acquirente o stabilite dal promittente stesso, unito ad un congruo termine per decidere (se manca, è fissato in base alla natura dell’affare o agli usi); il contratto non si conclude automaticamente ma potrà essere stipulato in un secondo momento.
Il promittente può, dunque, in ogni caso, decidere di non vendere, purché non venda nemmeno a terzi.
Stabilito, quindi, che il promittente resta libero in relazione sia all’an che nel quomodo del contratto, può, tranquillamente, distruggere o trasformare il bene oggetto della prelazione (ad es. costruendo sul fondo, se edificabile, per poi vendere la struttura).
Invece, in caso di vendita del bene, prima od in pendenza della denuntiatio, il soggetto leso può agire per ottenere il risarcimento del danno da inadempimento nei confronti del promissario ed ex 2043c.c  nei confronti del terzo acquirente, se questi era consapevole della presenza della prelazione e, quindi, in malafede.
L’unica eccezione la troviamo in tema di società di capitali, dove può essere prevista, nello statuto ed atto costitutivo, una prelazione in favore dei soci per la vendita di azioni o quote ma l’inefficacia dell’atto di alienazione ai terzi consegue all’opponibilità a questi dell’atto costitutivo, in seguito al deposito presso il registro delle imprese ed acquisto della personalità giuridica.
La prelazione legale, a differenza di quella convenzionale, è un diritto che nasce de iure e va a salvaguardare specifici interessi riconosciuti degni di tutela da parte dell’ordinamento giuridico (si pensi al c.d. retratto successorio, alla prelazione agraria in favore del coltivatore diretto del fondo o, sussidiariamente, del proprietario del fondo confinante, oppure alla prelazione urbana in favore di proprietari di immobili destinati ad uso non abitativo). Il diritto di prelazione agraria va esercitato entro 30 giorni dalla denuntiatio mentre quello di prelazione urbana entro 60.
Ferma restando la libertà, da parte del promittente, di trasformare o distruggere il proprio bene, rispetto alla prelazione convenzionale, quella legale ha efficacia reale e dunque è opponibile al terzo acquirente.
Quindi, in caso di acquisto da parte del terzo prima od in pendenza della denuntiatio, questi acquisterà il bene, in quanto il contratto è valido ed efficace ma il prelazionario può esercitare un diritto di riscatto, pagando il prezzo indicato nell’atto di vendita, e subentrare ex tunc nella posizione dell’acquirente.
Fondamentale per esercitare questo diritto di riscatto è che tra bene venduto e bene oggetto della prelazione ci sia identità. Questa non sussiste ad es. nella vendita in blocco di una intera palazzina, di cui un appartamento era oggetto di prelazione.
Il diritto di riscatto va esercitato entro sei mesi in caso di prelazione urbana, un anno in caso di prelazione agraria o in favore dell’ente parco e fino a quando dura lo stato di comunione ereditaria nel retratto successorio. Il termine inizia a decorrere dalla trascrizione dell’atto.
In caso di prelazione urbana, l’esercizio del diritto di prelazione comporta, per entrambe le parti, il sorgere dell’obbligo di contrarre, con possibilità di avvalersi dell’art. 2932 c.c.

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