venerdì 20 gennaio 2012

Contratto di apertura di credito. Il recesso della banca

di Alessandra Surano

Tra tutti i negozi giuridici attraverso i quali la banca svolge attività di erogazione del credito, ruolo preminente deve essere riconosciuto al contratto di apertura di credito, espressamente disciplinato agli artt. 1842 e ss. c.c.
Con l'apertura di credito, nota nella pratica come “fido”, la banca (accreditante) si obbliga a tenere a disposizione del cliente (accreditato) una determinata somma di denaro, per un dato tempo o a tempo indeterminato (art. 1842 c.c.).
Svolge una funzione analoga a quella del mutuo, da cui però se ne differenzia per un duplice aspetto: 1) a differenza del primo, che è un contratto reale, l'apertura di credito va annoverata tra i contratti consensuali: il momento perfezionativo del negozio in esame viene individuato nell'accordo delle parti e non, quindi, nell'erogazione della somma concessa in fido; 2) a differenza del muto che è contratto con effetto reale, traslativo della proprietà delle somme mutuate (art. 1814 c.c.), l'apertura di credito produce effetto obbligatorio: la banca si fa debitrice del cliente per la somma accreditatagli e il cliente acquista verso la banca il diritto di godimento della disponibilità concessagli. Se e nella misura in cui il cliente utilizza la provvista, sorge a suo carico l'obbligazione di restituire le somme prelevate, con i relativi interessi stabiliti per contratto.
Oggetto del contratto è, dunque, il godimento di una disponibilità concessa dalla banca accreditante che attribuisce all'accreditato il diritto potestativo di utilizzare il credito concessogli nei termini e nelle modalità pattuite, attraverso singoli atti di natura non negoziale qualificabili come mere operazioni.
L'accreditato è tenuto a corrispondere, oltre - come anticipato – agli interessi sulle somme utilizzate, una provvigione, denominata nel linguaggio bancario commissione di massimo scoperto. La dottrina maggioritaria ritiene che l'obbligo in questione prescinda dall'effettiva utilizzazione del credito e vada a remunerare il vantaggio per l'accreditato consistente nell'avere la sicurezza di poter contare su una determinata disponibilità. Sul punto è intervenuta la Banca d'Italia che, con la circolare del 1° ottobre 1996, ha puntualizzato come la commissione di massimo scoperto svolga una funzione autonoma rispetto al tasso di interesse e che, pertanto, rappresenta una distinta voce degli interessi passivi.
Quanto al profilo delle garanzie, nel concedere un'apertura di credito, le banche possono tanto fare esclusivo affidamento sul generico patrimonio del richiedente, quanto richiedere a quest'ultimo la concessione di garanzie reali quali presidio per il credito erogato. Nel primo caso si avrà un'apertura di credito allo scoperto, nel secondo un'apertura di credito garantita.
In quest'ultima ipotesi la garanzia che assiste l'apertura di credito perdura nella sua interezza e integrità fino alla fine del rapporto. Inoltre, se le garanzie diventano insufficienti rispetto al credito concesso (non utilizzato) la banca può chiedere la concessione di garanzie aggiuntive ovvero la sostituzione del garante. Nel caso in cui la richiesta della banca sia disattesa dall'accreditato, la banca stessa può alternativamente ridurre proporzionalmente il credito concesso o recedere dal contratto.
Senza dubbio le vicende che preludono e si accompagnano alla cessazione del rapporto di apertura di credito rappresentano l'aspetto più delicato di questo istituto, per il grave pregiudizio che una conclusione prematura e inaspettata del rapporto può avere sull'accreditato, e, ove questi, come sovente accade, sia un operatore economico, sull'intero sistema. Per tale ragione, questa fase del rapporto è stata più volte oggetto di attenzione in dottrina, in giurisprudenza e nella prassi operativa e commerciale. Costituisce, invero, anche il punto più analiticamente disciplinato dal codice (art. 1845 c.c.), che distingue tra apertura di credito a tempo determinato e apertura di credito a tempo indeterminato.
Quando l'apertura di credito è a tempo determinato, salvo patto contrario, la banca può recedere dal contratto esclusivamente se sussiste una giusta causa. Il recesso sospende immediatamente l'ulteriore erogazione del credito, ma la banca deve concedere al cliente un termine di almeno 15 giorni entro cui restituire le somme già utilizzate. Se l'apertura di credito è a tempo indeterminato, il recesso richiede un preavviso che, in mancanza di usi o di clausole contrattuali, è di 15 giorni (art. 1845, co. 3, c.c.). Durante questo tempo il cliente può continuare ad utilizzare il credito concessogli e alla scadenza dovrà immediatamente restituire le somme utilizzate.
Questo è il diritto positivizzato nel codice: un diritto che, però, si scontra con il diritto vivente fissato dalle N.B.U., che si inseriscono nel sistema avvalendosi della facoltà di patto contrario fatto salvo dall'incipit dell'art. 1845 c.c.
Tali norme non apportano alcuna distinzione tra apertura di credito a tempo determinato e apertura di credito a tempo indeterminato e all'art. 6 – frequentemente trasfuso nel testo del contratto predisposto dall'istituto bancario – dispongono la facoltà per la banca di recedere in qualsiasi momento, anche con comunicazione resa verbalmente, dall'apertura di credito, ancorchè concessa a tempo determinato, nonché di ridurla o di sospenderla. È, inoltre, consentito stabilire liberamente il preavviso per il pagamento di quanto dovuto dal cliente, che può addirittura essere ridotto a un solo giorno.
È manifesto che il contenuto di tale disposizione determina uno squilibrio contrattuale in danno del cliente: legittimando di fatto un imprevedibile comportamento della banca, l'accreditato non può programmare alcunchè, essendo privato delle basi per un ragionevole calcolo di programmazione costituite dalla durata dell'utilizzazione della disponibilità e dal tempo per la restituzione.
Tanto detto, emerge l'evidente contraddizione in cui è incorso il legislatore. Se da un lato la norma prevede che da un contratto a tempo determinato si possa recedere solo al ricorrere di una giusta causa, tutelando il cliente perchè salvaguarda in questo modo la stabilità della concessione del credito, dall'altro, facendo salvo il patto contrario, lascia spazio alla possibilità che questo meccanismo di tutela venga frustrato. Un rischio che si è posto all'attenzione della giurisprudenza che lo ha risolto affermando, con sentenza n. 4538 del 21 maggio 1997, che l'esercizio del diritto di recesso da parte della banca non è assolutamente insindacabile, in quanto deve pur sempre rispettare “il fondamentale e inderogabile principio secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 c.c.), alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattizziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito sia da  considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutti imprevisti e arbitrari”.
Dunque, per scongiurare l'abusività del comportamento della banca i giudici ricorrono al metro integrativo della buona fede. Tale clausola generale, operando come fonte di integrazione del regolamento contrattuale, impone all'istituto bancario di evitare condotte arbitrarie che, non trovando fondamento in una giusta causa, sono tali da contrastare con la ragionevole aspettativa del cliente che, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca, abbia contato sul fatto di poter disporre della provvista redditizia per un dato tempo e non potrebbe, quindi, considerarsi pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate.
In ultimo, è importante precisare, che la violazione del principio di buona fede non evita lo scioglimento del contratto, poiché non impedisce gli effetti dell'esercizio – anche se abusivo – del diritto potestativo di recesso, che è indiscutibilmente di titolarità della banca, ma fa sorgere un obbligo risarcitorio in capo a quest'ultima. 

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