Cassazione civile, Sez. I, 09 ottobre 2013, n. 22922
MASSIMA
Il
divieto di cessione agli avvocati del credito su cui è sorta
contestazione davanti all'autorità giudiziaria nella cui
giurisdizione esercitano le loro funzioni mira ad impedire
speculazioni sulle liti. Non può ritenersi che tale peculiare
funzione non investa anche la condizione d'inoperatività del divieto
consistente nella preesistenza di un intento solutorio alla base
della cessione
SENTENZA
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con
la sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Roma, confermando la
pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da G.G.,
in proprio e quale erede di R.R. nonchè da G.B.M. e Ga., in qualità
di eredi di R.R., nei confronti della Banca del Fucino s.p.a. al fine
di ottenere il risarcimento del maggior danno subito al netto del
massimale assicurativo già corrisposto a causa dello svuotamento
della cassetta di sicurezza di cui era titolare R.R., dovuto ad un
furto compiuto nella banca nella notte tra il (OMISSIS).
A
sostegno della decisione assunta è stato affermato che:
-
la cessione di credito effettuata dalla R. nei confronti del figlio
Giuseppe, nel corso del giudizio di primo grado doveva ritenersi
nulla per violazione della norma imperativa contenuta nell'art. 1261
c.c., comma 1, in quanto il cessionario era difensore della madre nel
giudizio relativo al credito cedutela norma doveva ritenersi
inderogabile in quanto diretta a salvaguardare la credibilità
dell'istituzione giudiziaria;
-
il consenso delle altre eredi e l'allegata esistenza di una ragione
creditoria del G. nei confronti della madre non poteva ritenersi
sufficiente ad escludere l'applicabilità del divieto, non risultando
dalla scrittura del 7 marzo 1995, contenente la predetta cessione,
che tale manifestazione di volontà fosse sostenuta da intento
solutorio, determinato da un debito pregresso;
-
questo intento non avrebbe potuto essere dimostrato dalla deposizione
o dal giuramento decisorio deferito alle sorelle;
-
la nullità dell'atto di cessione aveva conservato la qualità di
parte in capo alla R. nonostante la richiesta di estromissione con la
conseguenza che la domanda coltivata dagli eredi doveva essere
esaminata nel merito;
-
il contratto di locazione della cassetta di sicurezza doveva
ritenersi stipulato senza limiti di importo ma non risultava
adeguatamente provata la differenza di valore tra quanto custodito e
la liquidazione nei limiti del massimale. In particolare, all'esito
delle prove testimoniali assunte, non poteva ritenersi provato nè
che tutti i gioielli indicati nell'elenco prodotto in giudizio
fossero contenuti nella cassetta nè che il valore di ciascuno di
essi corrispondesse a quello fissato nel medesimo elenco.
Avverso
tale pronuncia ha proposto ricorso G.G., affidandosi a due motivi. Ha
resistito con controricorso l'istituto bancario che ha anche
depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Con
il primo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione degli
artt. 1261 e 2733 e 2736 c.c., nonchè
dell'art. 233 c.p.c., per avere la Corte d'Appello di Roma dichiarato
la nullità della cessione di credito nonostante le due eredi G.B.M.
e Gi.Ga. avessero espressamente riconosciuto in giudizio che
preesisteva un credito del cessionario verso il ceduto nonchè lo
scopo satisfattivo della cessione.
Per
questa ragione esse si erano opposte al giuramento decisorio deferito
loro in quanto superfluo. Si versava di conseguenza in una delle
condizioni d'inapplicabilità del divieto di cessione previste dalla
medesima disposizione. La censura è stata prospettata anche sotto il
profilo del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5.
E'
stato precisato dalla parte ricorrente che il diritto in questione
non è del tutto indisponibile come affermato nella sentenza
impugnata in quanto il divieto di cessione è condizionato dalla
sussistenza di due condizioni: una positiva, relativa
all'appartenenza ad una delle categorie previste dalla norma, l'altra
negativa, riguardante l'esclusione di azioni ereditarie tra eredi e o
di cessioni fatte in pagamento di debiti pregressi o per difesa di
beni ceduti dal cessionario. L'esistenza di tali condizioni è nella
disponibilità delle parti nel senso che esse hanno il diritto di
provare di non rientrare nelle categorie indicate nel comma 1, o che
si sia verificata una delle condizioni previste dal comma 2. La prova
può essere fornita anche mediante giuramento decisorio, quale quello
deferito. Ne consegue che la Corte d'Appello non avendo ritenuto
raggiunta la prova dell'inoperavità del divieto era tenuta ad
ammettere il predetto giuramento. E' stato ulteriormente chiarito che
le altre eredi in quanto controinteressate avevano reso una
confessione giudiziale, giustificando l'opposizione al giuramento
decisorio, con l'esistenza della ragione creditoria pregressa, come
riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata. Pertanto la decisione
doveva ritenersi palesemente contraddittoria nella misura in cui
aveva affermato di ammettere l'esistenza di un credito pregresso ma
successivamente aveva dichiarato tale riconoscimento insufficiente
per la mancata prova dell'intento solutorio, essendo privo di logica
che il contenuto confessorio delle dichiarazioni delle altre eredi
avesse potuto riguardare solo l'esistenza del debito da parte del
ceduto. E' stato infine aggiunto che non poteva escludersi
l'interesse a ricorrere del G. in ordine a tale motivo, in quanto
diversa è la titolarità del diritto per l'intero e come coerede pro
quota.
Nel
secondo motivo è stata dedotta la violazione dell'art. 324 c.p.c.;
dell'art. 112 c.p.c., nonchè il vizio di motivazione in ordine al
rigetto della domanda per difetto di prova del quantum.
In
primo luogo è stato opposto il giudicato sostanziale sull'esistenza
ed il valore dei preziosi indicati nell'elenco in ordine al quale
erano stati escussi i testi nel primo grado di giudizio, avendo il
Tribunale, nel giudizio relativo al riconoscimento del diritto al
pagamento del massimale, espressamente affermato che i gioielli
custoditi nella cassetta di sicurezza superavano di gran lunga il
valore del massimale e che il valore degli oggetti come indicati
nell'elenco raggiungeva circa i cento milioni. Su tale punto della
pronuncia era mancata un'impugnazione specifica da parte della banca.
Doveva di conseguenza ritenersi formato il giudicato esterno. Su tale
motivo d'appello la Corte aveva omesso di pronunciarsi. In secondo
luogo è stata censurata l'omessa e contraddittoria motivazione
laddove non è stata considerata la testimonianza di C.G. e laddove è
stata ritenuta inattendibile la deposizione di G.M. che aveva
riconosciuto l'esclusiva spettanza del risarcimento al fratello. La
medesima censura è stata rivolta alla valutazione della deposizione
Ci.
nella
parte in cui si è stato ritenuto che quest'ultimo non potesse
ricordare tutti i pezzi ed indicarne il valore mentre si trattava di
professionista allenato a tali valutazioni nonchè gioielliere di
fiducia della de cuius.
Il
primo motivo è manifestamente infondato. L'art. 1261 c.c., comma 2,
richiede espressamente, ai fini dell'inoperatività del divieto di
cessione del credito stabilito nel primo comma, non soltanto che a
fondamento della cessione vi sia un intento solutorio ma anche che il
pagamento riguardi un debito preesistente tra cedente e ceduto. Tali
condizioni, ineludibili, sono state ritenute insussistenti dalla
Corte d'Appello sulla base dell'incensurabile interpretazione della
scrittura privata, del 7/3/1995, nella quale era previsto un
corrispettivo per la cessione a favore del cedente, ritenuto
coerentemente incompatibile con l'intento solutorio richiesto dalla
norma. Deve osservarsi, al riguardo, che la genuinità del testo
negoziale e la sua corrispondenza alla volontà della de cuius non
sono mai state messe in dubbio nè dal ricorrente nè dalle altre
eredi. Peraltro, come precisato da questa Corte nella pronuncia n.
1319 del 1984, la ratio di tale disposizione - è diretta ad impedire
speculazione sulle liti da parte dei pubblici ufficiali e degli
esercenti un servizio di pubblica necessità, le cui funzioni hanno
attinenza con gli uffici giudiziari delle rispettive sedi, oltrechè
evitare che il prestigio e la fiducia nell'autonomia di quelle
persone possano rimanere pregiudicati da Atti di dubbia moralità. La
norma ha inequivocamente carattere imperativo sia in ordine
all'indisponibilità del divieto, sia in ordine alle condizioni di
applicabilità e alle ipotesi derogatorie.
Non
può conseguentemente, ritenersi che tale peculiare funzione non
investa anche la condizione d'inoperatività del divieto consistente
nella preesistenza di un intento solutorio alla base della cessione.
L'accertamento
di questa esclusiva volontà del cedente deve fondarsi su un'indagine
strettamente inerente alle manifestazioni di volontà da esso
provenienti e non può desumersi da dichiarazioni a contenuto
latamente confessorio provenienti dagli eredi, i quali subentrano nei
diritti e negli obblighi patrimoniali ma non possono modificare
l'univoca manifestazione di volontà del cuius, consacrata in una
scrittura privata, non contestata in ordine al suo contenuto. Infine,
trattandosi di diritti indisponibili, tali risultanze istruttorie,
univocamente tratte dal contenuto espresso di un testo negoziale
proveniente dal cedente, non possono essere ribaltate mediante il
giuramento decisorio, del tutto correttamente ritenuto inammissibile
nella sentenza impugnata, oltre che superfluo, con una valutazione
incensurabile in sede di giudizio di legittimità, ove, come nella
specie, sia sorretta da adeguata motivazione (Cass. 4001 del 2006;
13245
del 2007; 24025 del 2009; 10574 del 2012).
Ne
consegue che la dedotta volontà abdicativa delle altre eredi è
ininfluente ai fini del presente giudizio.
Il
secondo motivo di ricorso è infondato, sotto entrambi i profili.
La
sentenza passata in giudicato relativa al riconoscimento del diritto
ad ottenere la liquidazione dell'intero massimale non può costituire
giudicato sostanziale in ordine alla quantificazione del valore degli
oggetti custoditi nella cassetta di sicurezza svaligiata, così come
indicato dalla parte ricorrente. Al riguardo è univoco
l'orientamento di questa Corte che richiede ai fini dell'operatività
del giudicato esterno non soltanto l'identità delle parti ma anche
che il rapporto dedotto in giudizio sia il medesimo (ex multis, da
ultimo, Cass. 13921 del 2013) ed in particolare che
l'accertamento compiuto nel giudizio chiusosi con sentenza passata in
giudicato sia collegato al successivo da un nesso causale
inscindibile, ovvero che ne costituisca la premessa logica
ineludibile. Nella specie nessuna di queste ultime condizioni si è
verificata. Nel giudizio definito, l'oggetto dell'accertamento è
stato esclusivamente il diritto all'integrità del massimale.
Esclusivamente
entro tale limite quantitativo si è formato il giudicato. Le
deposizioni testimoniali relative al quantum contenute in quel
giudizio possono essere valutate al pari di altri indizi come
argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., così come le valutazioni
contenute in sentenza costituiscono un mero supporto argomentativo
alla decisione ma non possono assumere l'efficacia di statuizioni
suscettibili di passare in giudicato, in quanto estranee al petitum
del giudizio definito, nel quale non è stato accertato il valore
degli oggetti custoditi nella cassetta ma il diritto al
riconoscimento dell'intero massimale.
Da
tale giudizio, la Corte d'Appello non ha tratto conseguenze, peraltro
meramente probatorie, significative ai fini dell'accertamento del
complessivo quantum debeatur, oggetto esclusivo del presente
giudizio, con un giudizio di merito incensurabile in sede di
legittimità, fondato su una valutazione d'inadeguatezza del
complessivo materiale probatorio, adeguatamente motivato.
A
tale ultimo riguardo deve ritenersi inammissibile la parte del motivo
che mira ad un riesame, nel merito, dei fatti così come valutati
dalla sentenza di secondo grado con motivazione adeguata e coerente.
(ex multis, Cass. 9233 del 2006; 2272 del 2007; 14084 del
2007; 15264 del 2007).
Al
rigetto di entrambi i motivi di ricorso segue l'applicazione del
principio della soccombenza in ordine alle spese di lite.
P.Q.M.
La
Corte, rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente a pagare in favore
della parte contro ricorrente le spese del presente procedimento che
liquida in Euro 3.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi oltre
accessori di legge.
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