SOLUZIONE PARERE 6
Cassazione penale, sez. III, 9.06.2015, n. 11851
I FATTI
Il tribunale di Venezia, accogliendo la domanda
risarcitoria proposta da M.P. (in proprio e quale esercente potestà sul figlio
minore C.) e da M.M., condannò P. L. e la società 3 C Centro Clinico Chimico a
risarcire agli attori i danni non patrimoniali patiti, iure proprio e iure
heraeditario, nella misura di 1 milione 816 Euro, in conseguenza della malattia
e del successivo decesso di Z.N., rispettivamente moglie e madre dei M.,
affetta da un carcinoma maligno all'utero che, tempestivamente diagnosticato,
avrebbe potuto essere adeguatamente curato, con conseguente elisione o quanto
meno limitazione e differimento temporale dell'esito letale della malattia.
Il giudice di primo grado condannò nel contempo la
compagnia assicuratrice Nuova Tirrena, in qualità di terza chiamata in garanzia
dal Centro Clinico, a tenere indenne il chiamante di quanto dovuto agli attori
nei militi del massimale di polizza.
La corte di appello di Venezia, investita delle
impugnazioni proposte dalla compagnia assicuratrice in via principale, e dal
Centro 3 C e dal P. in via incidentale, le accolse limitatamente alle doglianze
relative all'entità della liquidazione del danno, che venne ridotta ad Euro
580.816, rigettando tutte le altre censure mosse alla sentenza impugnata in
punto di an deabatur e - quanto alla Nuova Tirrena - di efficacia della polizza
assicurativa.
Per la cassazione della sentenza della Corte lagunare
ricorre in via principale P.L. sulla base di 6 motivi di censura illustrati da
memoria.
Resistono il Centro Clinico (che presenta memoria) e i
consorti M. con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale (cui
resiste con controricorso il Centro Clinico).
Resiste ancora con controricorso la Groupama
Assicurazioni, già Nuova Tirrena.
LE RAGIONI DELLA DECISIONE
I ricorsi devono essere riuniti.
Essi sono infondati.
IL RICORSO PRINCIPALE P..
Con il primo motivo, si denuncia contraddittoria o
comunque insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo del
giudizio rappresentato dalla condotta contestata al Dott. P. L. - Violazione e
falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., per avere la sentenza fondato la
responsabilità del Dott. P. su un titolo diverso da quello allegato in giudizio.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 163, 164 e 183 c.p.c. e dell'art. 24 Cost., per
l'ipotesi in cui la sentenza abbia fondato la responsabilità del Dott. P. su un
titolo allegato in giudizio oltre le preclusioni processuali.
Le censure, intimamente connesse sul piano giuridico,
possono essere congiuntamente esaminate.
Entrambe - nel lamentare un preteso vizio di
ultrapetizione della sentenza impugnata per avere la Corte di appello fondato
la affermazione di responsabilità del P. su di una rilevata condotta omissiva,
mentre l'originaria causa petendi della domanda risarcitoria era fondata sul
presupposto di una condotta colposamente commissiva - risultano inammissibili
in rito, prima ancora che infondate nel merito.
Secondo quanto esposto dallo stesso ricorrente, la
pronuncia di appello si era limitata, sul punto, a confermare la decisione di
primo grado - testualmente riportata, in parte qua, dalla stessa difesa del P.,
pronuncia che aveva già fondato, a suo dire, l'affermazione di responsabilità
su di una condotta esclusivamente omissiva, costituita dall'omesso controllo
dell'operato di coloro che, a tutti gli effetti ... collaboravario con lui
nell'espletamento dell'attività specialistica, e nel non aver tempestivamente
diagnosticato tale grave malattia (come si legge al folio 15 dell'odierno atto
di impugnazione), senza che, in sede di appello, di tale, pretesa immutatio
risulti ex actis che il P. abbia avuto espressamente e tempestivamente a
dolersi.
Di tale doglianza, difatti, non è traccia alcuna nelle
conclusioni rassegnate in sede di appello - che si leggono ai ff. 5 e 6 della
sentenza oggi impugnata -, senza che il ricorrente, in spregio al principio di
autosufficienza, riporti in parte qua, nell'esposizione del primo motivo, il
contenuto degli atti di primo e/o secondo grado in cui l'eccezione sia stata
tempestivamente sollevata e illegittimamente pretermessa.
Nel secondo motivo il ricorrente si limita poi (f. 16 del
ricorso) ad una generica allegazione, poco più che declamatoria, della
tempestività dell'eccezione in parola, con riferimento, peraltro condizionale,
all'ipotesi in cui la sentenza impugnata "avesse ritenuto di ravvisare
l'allegazione della condotta omissiva nella comparsa di costituzione di nuovo
difensore del Centro Clinico" - ipotesi del tutto impredicabile, nella
specie, non essendovi di tale circostanza traccia alcuna nella sentenza di appello,
che ha, autonomamente e indipendentemente dall'atto de quo, individuato gli
estremi della responsabilità del P. limitandosi a confermare in toto la
decisione di primo grado.
Ma, anche se si volesse meno formalisticamente trarre,
dal passo della motivazione di cui al folio 9 della sentenza d'appello (ove si
legge che "il P. si costituiva dolendosi del vizio di ultrapetizione
laddove il Tribunale lo aveva ritenuto responsabile per culpa in omittendo
mentre gli era stata contestata una culpa in commettendo), la conclusione che
l'eccezione in parola sia stata tempestivamente formulata, il motivo risulta
comunque infondato nel merito.
E' nel merito, difatti, che la decisione della Corte di
appello (f.13 della sentenza impugnata) evidenzia come i profili di negligenza
imperizia e imprudenza ravvisati nella condotta del sanitario fossero nella
specie individuabili, in consonanza con le conclusioni peritali, nella
valutazione dei preparati colpo citologie allestiti sulla signora Z., onde la
formulazione, guarito ai reperti allestiti nel 1990 e 1991, di una diagnosi
sulla scorta di preparati di scarsa e inadeguata qualità, sui quali non era
invece possibile avare certezza diagnostica, mentre, quanto ai preparati degli
anni successivi, alla formulazione diagnostica sulla scorta di preparati
inadeguati e di scarsa qualità si aggiunge anche la mancata esecuzione di
approfondimenti, anch'essi diagnostici, pur indispensabili sulla scorta di
quanto era comunque valutabile con riferimento a tali preparati.
La Corte di appello, pertanto, diversamente da quanto
opinato da parte ricorrente, ha fondato il proprio convincimento sulla base di
una (accertata, reiterata e diacronica) condotta sicuramente commissiva del
sanitario, cui sarebbe poi conseguita, quale inevitabile (quanto irrilevante,
ai fini della correttezza della domanda introduttiva) post factum, l'omissione
di ulteriori quanto doverose condotte.
Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 111 e 24 Cost., per avere la sentenza attribuito valore
probatorio ad una perizia tecnica acquisita in sede penale in assenza di
contraddittorio e per essersi la stessa sentenza fondata su una consulenza
tecnica che su detta perizia si è basata.
Con il quarto motivo, si denuncia contraddittoria e
comunque insufficiente motivazione circa la provenienza di parte della perizia
svolta su incarico del Pubblico Ministero in assenza di contraddittorio e circa
l'impossibilità di verificare l'oggetto dell'accertamento.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente attesane la
intrinseca connessione logica, sono manifestamente infondate.
Il ricorrente, nella sostanza, sembra dolersi del fatto
che ben tre consulenze tecniche, l'una eseguita nel corso del procedimento
penale instauratosi a carico del P., l'altra disposta dal giudice civile di
primo grado nel pieno rispetto del contraddittorio, l'altra ancora eseguita in
sede di appello (e a sua volta immune da vizi procedurali), siano giunte alle
medesime conclusioni in ordine alla sua colpevolezza (tra l'altro affermata anche
sulla base di ulteriori prove, testimoniali e documentali, come si legge in
sentenza).
Quanto, in particolare, alla perizia svolta in sede
penale, pur volendo prescindere dall'indiscutibile valore indiziario che, per
costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, essa riveste ipso facto
nel giudizio civile di danni, va osservato (come puntualmente rilevato dai
contro ricorrenti M.) che la stessa consulenza formò poi oggetto di
testimonianza resa in prime cure da parte di uno dei componenti del collegio
peritale nominato dal P.M., ad ulteriore conferma della assoluta legittimità
del suo utilizzo in sede probatoria da parte del giudice di merito.
Tutte le ulteriori doglianze contenute nei motivi in
esame, infine, impingendo in valutazioni di mero fatto, devono ritenersi
sottratte tout court al vaglio di legittimità di questa Corte.
Con il quinto motivo, si denuncia omessa, o in subordine
insufficiente motivazione circa un fatto relativo alla perdita del materiale
probatorio (vetrini) e alla impossibilità di giungere ad una soluzione certa
del quesito come espresso nel supplemento di consulenza tecnica del 21 giugno
2007.
La censura è infondata.
Contrariamente all'assunto di motivazione omessa o
insufficiente, relativa al passo relativo alla irripetibilità degli esami dei
vetrini, la Corte territoriale ha offerto (f. 15 della sentenza impugnata) una
congrua ed articolata spiegazione (quella stessa che parte ricorrente ritiene
"insufficiente rispetto al superamento del fatto") , fondata sul richiamo
alla CTU che a sua volta si era basata sulla documentazione redatta, a scopo
clinico e di valutazione scientifica, dal Dott. Mu. e poi dal CTU del P.M.,
"senza che i risultati dell'indagine mutassero, ovvero che insorgessero
contestazioni su errori metodologici o sugli esiti in sede penale, tanto che il
P. aveva poi chiesto il patteggiamento della pena".
Pertanto, il "problema della validità del giudizio
del CTU in assenza dei preparati", problema che lo stesso CTU ritenne
"essere di competenza della Corte"è stato motivatamente risolto dal
giudice di appello, sulla base di argomentazioni scevre da errori logico-
giuridico, e pertanto sottratte ipso facto al giudizio di questa Corte.
Con il sesto motivo, si denuncia omessa o comunque
insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia
rappresentato dall'attività svolta dal Dott. P.L. all'interno del centro
clinico chimico.
La censura, che ripropone ancora una volta un tema di
indagine già affrontato e risolto dalla Corte territoriale, è manifestamente
infondata.
Con essa si rappresenta nuovamente a questa Corte la
questione della pretesa "incompetenza" citodiagnostica del sanitario
in relazione alla funzione svolta all'interno della struttura, tesi palesemente
smentita dalle circostanze emerse in sede di giudizio di merito e puntualmente
rilevate in sentenza in ordine alla specifica competenza del dottore anche in
relazione a tale branca medica, anche in conseguenza dei titoli accademici e
delle esperienze professionali da lui stesso allegate alla comparsa di
costituzione e risposta in primo grado.
IL RICORSO INCIDENTALE M..
Con il primo motivo, si denuncia omessa ovvero apparente
motivazione su di un punto decisivo della controversia con riferimento al danno
esistenziale (qualificato di agonia) patito dalla signora Z. e a quello
parentale patito dai congiunti; violazione di legge (art. 2729) ovvero falsa
applicazione.
Lamentano i ricorrenti incidentali:
da un canto, il mancato riconoscimento, da parte della
Corte di appello, del pregiudizio degli stili di vita e delle relazioni
parentali in capo alla defunta - e la conseguente, mancata liquidazione iure
heraeditatis ai suoi successori;
- dall'altro, il mancato riconoscimento iure proprio del
danno parentale, inteso come sconvolgimento delle abitudini di vita dei
superstiti, che andava invece risarcito congiuntamente al danno morale;
Con il secondo motivo, si denuncia, in sostanziale
consonanza con le doglianze rappresentate con il primo motivo di censura,
contraddittoria motivazione, ovvero omessa i.e. carente in ordine alle poste di
danno.
Entrambe le censure sono infondate, ma la motivazione
adottata dalla Corte territoriale va da un canto corretta, dall'altro
precisata.
Alla correzione e precisazione della motivazione adottata
dal giudice di appello si rendono opportune le premesse che seguono.
1. Questa Corte, in più di un'occasione (Cass.
28407/2008; Cass. 29191/2008; Cass. 5770/010; Cass. 18641/011; Cass. 20292/012)
ha già avuto modo di affermare, in tema di danno morale e di danno alla vita di
relazionale, i principi di diritto alla cui riaffermazione legittimamente
anelano le parti ricorrenti.
In particolare, con la pronuncia n. 22585/013 (che a sua
volta richiama il dictum di Cass. 20292 del 2012), si è affermato, in
motivazione, quanto segue:
1.1. Un più ampio panorama dello stato della
giurisprudenza, di legittimità e costituzionale, sino a tutto il 2006 impone al
collegio una prima considerazione (peraltro non indispensabile, alla luce dei
successivi interventi compiuti dal legislatore, a livello di normativa primaria
e secondaria, all'indomani delle sentenze dell'11 novembre 2008), secondo la
quale un indiscusso e indiscutibile formante giurisprudenziale di un
altrettanto, indiscutibile "diritto vivente", così come predicato ai
suoi massimi livelli, era, sino a tutto l'anno 2006, univocamente indirizzato
nel senso della netta separazione, concettuale e funzionale, del danno
biologico, del danno morale, del danno derivante dalla lesione di altri
interessi costituzionalmente protetti.
1.2. Va in proposito ulteriormente rammentato che, con le
sentenze di questa Corte nn. 8827 e 8828 del 2003, vennero testualmente
affermati (ff. 38 ss.) i principi che seguono:
"Si risarciscono così, in conseguenza della lesione
di interessi di rango costituzionale, danni diversi da quello biologico e da
quello morale soggettivo, pur se anch'essi di natura non patrimoniale. Il che
non impedisce, proprio per questo e nell'ottica della concezione unitaria della
persona, che la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa
anche essere unica, senza una distinzione - bensì opportuna, ma non sempre
indispensabile - tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo
e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza
psichica, ovvero quanto deve essere liquidato a titolo di risarcimento del
danno biologico in senso stretto (se una lesione dell'integrità psico-fisica
sia riscontrata) e quanto per il ristoro dei pregiudizi in parola ovvero,
ancora, che la liquidazione del danno biologico, di quello morale soggettivo e
degli ulteriori pregiudizi risarcibili sia espressa da un'unica somma di
denaro, per la cui determinazione si sia tuttavia tenuto conto di tutte le
proiezioni dannose del fatto lesivo. La prassi giudiziaria ha infatti attuato,
anche se non sempre in modo dichiaratamente consapevole, una dilatazione degli
originari ambiti concettuali del danno alla salute e di quello morale
soggettivo, ricomprendendo nel primo (danno biologico in senso lato,
nell'accezione indicata da Corte cost., n. 356 del 1991) tutti i riflessi
negativi che la lesione della integrità psico-fisica normalmente comporta sul
piano dell'esistenza della persona, inducendo un peggioramento della
complessiva qualità della vita; e, nel secondo (o, alternativamente, nel primo,
come prospettato anche nella sentenza in questa occasione gravata), tutte le
rinunce collegate alle sofferenze provocate dal fatto lesivo costituente reato:
queste ultime riguardate inoltre, non di rado, nella loro perdurante
protrazione nel tempo e non già come patema d'animo o stato d'angoscia
transeunte (secondo l'indicazione offerta da Corte cost., n. 321 del 1994). Si
è fatto leva, in particolare, sulle constatazioni che il danno biologico, a
seguito di una valutazione che deve essere nel più alto grado possibile
personalizzata, è liquidato in precipua considerazione di quanto il soggetto
non potrà più fare; che il dolore psichico ha spesso ripercussioni sul modus
vivendi di chi lo patisce nel senso di attenuarne il desiderio di attività; che
alcuni tipi di patemi d'animo hanno un'intrinseca attitudine ad essere
ineluttabilmente permanenti, piuttosto che meramente transeunti ....; è
conclusivamente il caso di chiarire che la lettura, costituzionalmente
orientata dell'art. 2059 c.c., va tendenzialmente riguardata non già come
occasione di incremento generalizzato della posto di danno (e mai come
strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma
soprattutto come mezzo per colmare la lacuna, secondo l'interpretazione ora
superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona, che va
ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non
patrimoniale:
quest'ultimo comprensivo del danno biologico in senso
stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei
pregiudizi diversi ad ulteriori, purchè costituenti conseguenza della lezione
di un interesse costituzionalmente protetto. Deve anche dirsi che, tutta la
volta che si verifichi la lesione di un tale tipo di interesse, il pregiudizio
consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d'animo) è
risarcibile anche ne il fatto non sia configurabile come reato. D'altra parte,
in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale,
non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perchè
questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui
ancorarsi".
1.3. Dal suo canto, la Corte costituzionale, con la
sentenza n. 233 del 2003, in evidente consonanza con il dictum delle sentenze
appena citate, ebbe modo di affermare che:
"Un'interpretazione costituzionalmente orientata
dell'art. 2059 c.c., è tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della
norma ogni danno di natura, non patrimoniale derivante da lesione di valori
inerenti alla persona: e dunque, sia il danno morale soggettivo inteso come
transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima;
sia il danno biologico in senso stretto, inteso come
lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità pschica e
fisica della persona conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia
infine il danno (spesso definito in dottrina e giurisprudenza come
esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango
costituzionale inerenti alla persona" (così, testualmente, il giudice
delle leggi al punto 3.1 della sentenza).
1.4. Il quadro giurisprudenziale si completa, ratione
temporis, con la pronuncia di cui a Cass. ss.uu. n. 6572 del 2006 (resa in tema
di demansionamento del lavoratore) , ove si legge ancora che: "Per danno
esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul
fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti
relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo
di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel
mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non
meramente emotiva ed ulteriore (propria del c.d. danno morale), ma
oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di
vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato
l'evento dannoso. Essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non
essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare - al quale si
fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri
medico legali applicabili in relazione alla lesione dell'indennità psicofisica
- esso necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il
soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti
l'alterazione delle sue abitudini di vita. E ciò perchè è noto che
dall'inadempimento datoriale, possono nascere, astrattamente, una pluralità di
conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale; danno all'integrità
- psico-fisica, o danno biologico; danno all'immagine o alla vita, di
relazione, sintetizzati nella locuzione danno c.d. esistenziale, che possono
anche coesistere l'una con l'altra. Mentre il danno biologico non può
prescindere dall'accertamento medico legale, quello esistenziale può invece
essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che
dimostri nel processo "i concreti" cambiamenti che l'illecito ha
apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti
- se è vero che la stessa categoria del "danno esistenziale" si fonda
sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile,
del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita
diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento
dannoso".
2. Sulla base di tali premesse di principio, la
motivazione della sentenza 22585/2013 così prosegue:
Le stesse "tabelle" in uso presso il tribunale
di Milano - che questa stessa Corte ha elevato, con la sentenza 12408/2011, a
dignità di generale parametro risarcitorio per il danno non patrimoniale - ne
prevedevano, prima del 2008, una separata liquidazione, indicando, in
particolare, nella misura di un terzo la percentuale di danno biologico utilizzabile
come parametro per la liquidazione del (diverso) danno morale subbiettivo.
Le norme di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle
assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005), calate in tale realtà
interpretativa, non consentivano (nè tuttora consentono), pertanto, una lettura
diversa da quella che predicava la separazione tra i criteri di liquidazione
del danno biologico in esse codificati e quelli funzionali al riconoscimento
del danno morale: in altri termini, la "non continenza", non soltanto
ontologica, nel sintagma ndanno biologico" anche del danno morale.
Nella fattispecie del danno biologico, invero, il
legislatore del 2005, alla luce dell'incontrastato diritto allora vivente, ebbe
a ricomprendere quella categoria di pregiudizio non patrimoniale - oggi
circoscritta alla dimensione di mera voce descrittiva dalle sezioni unite di
questa Corte con le. sentenze c.d. di S. Martino - che, per voce della stessa
Corte costituzionale, era stata riconosciuta e definita come danno
esistenziale: è lo stesso Codice delle assicurazioni private a discorrere, di
fatti, di quegli aspetti "dinamico relazionali" dell'esistenza che
costituiscono danno ulteriore frectius, conseguenza dannosa ulteriormente
risarcibile) rispetto al danno biologico strettamente inteso come
compromissione psico-fisica da lesione medicalmente accertabile. L'aumento
percentuale del risarcimento riconosciuto in funzione del punto invalidità,
difatti, non è altro che il riconoscimento di tale voce descrittiva del danno,
e cioè della descrizione degli ulteriori patimenti che, sul piano delle
dinamiche relazionali, il soggetto vittima di una lesione medicalmente
accertatile subisce e di cui (se provati) legittimamente avanza pretese
risarcitorie.
Ma quid iuris qualora (come nella specie) un danno
biologico manchi del tutto, e il diritto costituzionalmente protetto (quello
che le sentenze del 2003 definirono, con terminologia di più ampio respiro, in
termini di "valore" e/o "interesse" costituzionalmente
protetto) risulti diverso da quello di cui all'art. 32 Cost., sia cioè, altro
dal diritto alla salute (che il costituente, non a caso, ebbe cura di non
definire inviolabile - al pari della libertà, della corrispondenza e del
domicilio - bensì fondamentale)? Quanto al danno morale, ed alla sua autonomia
rispetto alle altre voci descrittive di danno (e cioè in presenza o meno di un
danno biologico o di un danno "relazionale"), questa Corte, con la
sentenza 18641/2011, ha già avuto modo di affermare che la modifica del 2009
delle tabelle del tribunale di Milano, in realtà, non ha mai
"cancellato" la fattispecie del danno morale intesa come
"voce" integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale,
nè avrebbe potuto farlo senza violare un preciso indirizzo legislativo, manifestatosi
in epoca successiva alle sentenze del 2008 di queste sezioni unite, dal quale
il giudice, di legittimità e di merito, non può in alcun modo prescindere, in
una disciplina (e in una armonia) di sistema che, nella gerarchia delle fonti
del diritto, privilegia ancora la disposizione normativa rispetto alla
produzione giurisprudenziale.
L'indirizzo di cui si discorre si è espressamente
manifestato attraverso la emanazione di due successivi D.P.R. n. 31 del 2009 e
Un. 191 del 2009, in seno ai quali una specifica disposizione normativa (l'art.
5) ha inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere,
morfologicamente prima ancora che funzionalmente, all'indomani delle pronunce
delle sezioni unite di questa corte (che, in realtà, ad una più attenta lettura,
non hanno mai predicato un principio di diritto volto alla soppressione per
assorbimento, ipso facto, del danno morale nel danno biologico, avendo
viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare,
attraverso una rigorosa analisi dell'evidenza probatoria, duplicazioni
risarcitorie) tra la "voce" di danno c.d.
biologico da un canto, e la "voce" di danno
morale dall'altro.
Si legge di fatti alle lettere a) e b) del citato art. 5,
nel primo dei due provvedimenti normativi citati:
- che "la percentuale di danno biologico è
determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri di cui
agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni; che "la
determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso,
tenendo conto dell'entità della sofferenza e del turbamento dello stato
d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in
rapporto all'evento dannoso, in misura fino a un massimo di due terzi
del,valore percentuale del danno biologico".
2.1. Non sembrò revocabile in dubbio alla Corte, e non
sembra revocabile in dubbio oggi al collegio, che, nella più ampia e unitaria
dimensione del risarcimento del danno alla persona, la necessità di una
integrale riparazione del danno parentale (secondo i principi indicati dalla
citata Cass. ss.uu. 26972/08) comporti che la relativa quantificazione debba
essere tanto più elevata quanto più grave risulti il vulnus alla situazione
soggettiva tutelata dalla Costituzione inferto al danneggiato, e tanto più
articolata quanto più esso abbia comportato un grave (o gravissimo), lungo (o
irredimibile) sconvolgimento della qualità e della quotidianità della vita
stessa.
2.2. Tanto premesso, si legge ancora nella sentenza
22585/2013 che:
Sulla base di tali premesse, e sgombrato il campo da ogni
possibile equivoco quanto alla autonomia del danno morale rispetto non soltanto
a quello biologico, ma anche a quello "dinamico relazionale"
(predicabile pur in assenza di un danno alla salute), va affrontata e risolta
la questione della legittimità di un risarcimento di danni ed.
"esistenziali".
Questione da valutarsi, non diversamente da quella
afferente al danno morale, alla luce del dictum dalle sezioni unite di questa
corte nel 2008, che lo ricondussero, in via di principio, a species descrittiva
di danno non patrimoniale, inidonea di per sè a costituirne autonoma categoria
risarcitoria.
Un principio affermato, peraltro, nell'evidente e
irrinunciabile intento di porre un ormai improcrastinabile limite alla dilagante
pan- risarcibilità di ogni possibile species di pregiudizio, benchè priva del
necessario referente costituzionale, e sancito con specifico riferimento ad una
fattispecie di danno biologico.
Un principio che, al tempo stesso, affronta e risolve
positivamente la questione della risarcibilità di tutte quelle situazioni
soggettive costituzionalmente tutelate (diritti inviolabili o anche
"solo" fondamentali, come l'art. 32 Cost., definisce la salute)
diversi dalla salute, e pur tuttavia incise dalla condotta del danneggiante
oltre quella soglia di tollerabilità indotta da elementari principi di civile
convivenza (come pure insegnato dalle stesse sezioni unite).
Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita
quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della
motivazione che discorre di centralità della persona e di integralità del
risarcimento del valore uomo - così dettando un vero e proprio statuto del
danno non patrimoniale sofferto dalla persona per il nuovo millennio.
La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a
sua volta risposte al quesito circa la "sopravvivenza descrittiva"
del c.d.
danno esistenziale, se è vero come è vero che
"esistenziale"è quel danno che, in caso di lesione della stessa
salute, si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto,
come conseguenza, sì, ma autonoma, della lesione medicalmente accertabile.
Prova ne sia che un danno biologico propriamente
considerato - un danno, cioè, considerato non sotto il profilo eventista, ma
consequenzialista - non sarebbe legittimamente configurabile (sul piano
risarcitorio, non ontologico) tutte le volte che la lesione (danno evento) non
abbia procurato conseguenze dannose risarcibili al soggetto: la rottura, da
parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco ad essere estirpato dal
(costoso ...) dentista è certamente una "lesione medicalmente
accertabile", ma, sussunta nella sfera del rilevante giuridico (id est,
del rilevante risarcitorio), non è (non dovrebbe) essere anche lesione risarcibile,
poichè nessuna conseguenza dannosa (anzi..), sul piano della salute, appare
nella specie legittimamente predicabile (la medesima considerazione potrebbe
svolgersi nel caso di frattura di un arto destinato ad essere frantumato nel
medesimo modo dal medico ortopedico nell'ambito di una specifica terapia ossea
che attende di lì a poco il danneggiato).
Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura
delle sentenze delle sezioni unite del 2008 condotta, prima ancora che secondo
una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica
di tipo induttivo che, dopo aver identificato l'indispensabile situazione
soggettiva protetta a livello costituzionale (oltre alla salute, il rapporto
familiare e parentale, l'onore, la reputazione, la libertà religiosa, il
diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all'ambiente, il
diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il
diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice
del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione
tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo
impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d.
esistenziale, in tali sensi rettamente inteso).
2.3. E va in proposito ulteriormente precisato che, al di
là e a prescindere dal formalismo delle categoria giuridiche, troppo spesso il
mondo del diritto, intriso di inevitabili limiti sovrastrutturali che ne
caratterizzano la stessa essenza, ha trascurato l'analisi fenomenologica del
danno alla persona, che altro non è che indagine sulla fenomenologia della
sofferenza.
Il semplice confronto con ben più attente e competenti
discipline (psicologiche, psichiatriche, psicoanalitiche) consente
(consentirebbe) anche al giurista di ripensare il principio secondo il quale la
persona umana, pur considerata nella sua "interezza", è al tempo
stesso dialogo interiore con se stesso, ed ancora relazione con tutto ciò che è
altro da se.
In questa semplice realtà naturalistica si cela la
risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie)
all'interrogativo circa la reale natura e la vera essenza del danno alla
persona: la sofferenza interiore, le dinamiche relazionali di una vita che
cambia.
Una indiretta quanto significativa indicazione in tal
senso potrebbe essere rinvenuta nel disposto dell'art. 612-bis c.p., che, sotto
la rubrica intitolata "Atti persecutori", dispone che sia
"punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con
condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un
perdurante e grave stato di ansia o di paura (ovvero da ingenerare un fondato
timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al
medesimo legata da relazione affettiva), ovvero da costringere lo stesso ad
alterare le proprie abitudini di vita".
Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione
di legge - per quanto destinata ad operare in uni ristretto territorio del
diritto penale - i due autentici momenti essenziali della sofferenza
dell'individuo: il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della
vita quotidiana.
Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente
risarcibili, ma se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di
sommarie quanto impredicabili generalizzazioni (che anche il dolore più grave
che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna
conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria
vita "esterna" per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo
emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua
scomparsa; che anche la sofferenza più grande che un figlio può patire, quale
la perdita per morte violenta di un genitore, non implica ipso facto la
risarcibilità del danno, se danno non vi fu.
E se è lecito ipotizzare, come talvolta si è scritto, che
la categoria del danno "esistenziale" risulti "indefinita e
atipica", ciò appare la probabile conseguenza dell'essere la stessa
dimensione della sofferenza umana, a sua volta, "indefinita e
atipica".
3. Su tali premesse si innesta la recente pronuncia della
Corte costituzionale, n. 235/2014, predicativa della legittimità costituzionale
dell'art. 139 del codice delle assicurazioni, la cui (non superficiale o
volutamente parziale) lettura conduce a conclusioni non dissimili.
Si legge, difatti, al punto 10.1 di quella pronuncia, che
"la norma denunciata non è chiusa, come paventano i remittenti, alla
risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del
quale, il giudice può avvalersi della possibilità di Incremento dell'ammontare
del danno biologico, secondo la previsione e nei limiti di cui alla
disposizione del comma 3 (aumento del 20%)".
La limitazione ex lege dell'eventuale liquidazione del
danno morale viene così motivata dal giudice delle leggi:
"In un sistema, come quello vigente, di
responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente
assicurata - in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di
Garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici,
l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi
con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello
accettabile e sostenibile dei premi assicurativi" (punto 10.2.2.).
La Corte prosegue, poi, significativamente, sottolineando
come "l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno -
attinente al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e
coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla
scienza medica in relazione ai primi nove gradi della tabella - lascia comunque
spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio risultante
dall'applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente
maggiorandolo fino a un quinto in considerazione delle condizioni soggettive
del danneggiato".
3.1. La motivazione della Corte non sembra prestarsi ad
equivoci.
3.1.2. Il danno biologico da micro permanenti, definito
dall'art. 139 CdA come "lesione temporanea o permanente all'integrità
psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che
esplica un incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato", può essere
"aumentato in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato" secondo la
testuale disposizione della norma: e il giudice delle leggi ha voluto esplicitare
una volontà legislativa che, alla luce delle considerazioni svolte, limitava la
risarcibilità del danno biologico da micro permanente ai valori tabellari
stabiliti ex lege, contestualmente circoscrivendo l'aumento del quantum
risarcitorio in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato - e cioè
attraverso la personalizzazione del danno, senza che "la norma denunciata
sia chiusa al risarcimento anche del danno morale" - al 20% di quanto
riconosciuto per il danno biologico.
3.2. Viene così definitivamente sconfessata, al massimo
livello interpretativo, la tesi predicativa della "unicità del danno
biologico", qual sorta di primo motore immobile del sistema risarcitorio,
Leviatano insaziabile di qualsivoglia voce di danno.
Anche all'interno del micro-sistema delle
micro-permanenti, resta ferma (nè avrebbe potuto essere altrimenti, non potendo
le sovrastrutture giuridiche ottusamente sovrapporsi alla fenomenologia della
sofferenza) la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza
sugli aspetti relazionali della vita del soggetto.
Ma tante dispute sarebbero forse state evitate ad una più
attenta lettura della definizione di danno biologico, identica nella
formulazione dell'art. 139 come del 138 del codice delle assicurazioni nel suo
aspetto morfologico (una lesione medicalmente accertabile), ma diversa in
quello funzionale, discorrendo la seconda delle norme citate di lesione
"che esplica un'incidenza negativa sulla attività quotidiana e sugli
aspetti dinamico relazionali del danneggiato".
Una dimensione, dunque, dinamica della lesione, una
proiezione tutta (e solo) esterna al soggetto, un vulnus a tutto ciò che è
"altro da se" rispetto all'essenza interiore della persona.
3.2.1. La distinzione dal danno morale si fa dunque ancor
più cristallina ad una (altrettanto attenta) lettura dell'art. 138, che
testualmente la Corte costituzionale esclude dalla portata precettiva del
proprio decisum in punto di limitazione ex lege della liquidazione del danno
morale.
Il meccanismo standard di quantificazione del danno
attiene, difatti, "al solo, specifico, limitato settore delle lesioni di
lieve entità" dell'art. 139 (e non sembra casuale che il giudice delle
leggi abbia voluto rafforzare il già chiaro concetto con l'aggiunta di ben tre
diversi aggettivi).
L'art. 138, dopo aver definito, alla lettera a) del comma
2, il danno biologico in maniera del tutto identica a quella di cui
all'articolo successivo, precisa poi, al comma 3, che "qualora la
menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti
dinamico- relazionali personali, ... l'ammontare del danno può essere aumentato
dal giudice sino al trenta per cento con equo e motivato apprezzamento delle
condizioni soggettive del danneggiato".
Lo stesso tenore letterale della disposizione in esame
lascia comprendere il perchè la Corte costituzionale abbia specificamente e
rigorosamente limitato il suo dictum alle sole micro permanenti:
nelle lesioni di non lieve entità, difatti, l'equo
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato è funzione necessaria
ed esclusiva della rilevante incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico
relazionali personali.
Il che conferma, seppur fosse ancora necessario, la
legittimità dell'individuazione della doppia dimensione fenomenologica del danno,
quella di tipo relazionale, oggetto espresso della previsione legislativa in
aumento, e quella di natura interiore, da quella stessa norma, invece,
evidentemente non codificata e non considerata, lasciando così libero il
giudice di quantificarla nell'an e nel quantum con ulteriore, equo
apprezzamento.
Il che conferma che, al di fuori del circoscritto ed
eccezionale ambito delle micropermanenti, l'aumento personalizzato del danno
biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali della vita del soggetto
in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a
prescindere dalla considerazione (e dalla risarcibilità) del danno morale.
Senza che ciò costituisca alcuna "duplicazione
risarcitoria".
In altri termini, se le tabelle del danno biologico
offrono un indice standard di liquidazione, l'eventuale aumento percentuale
sino al 30% sarà funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in
relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto.
Altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla
patita sofferenza inferiore.
Senza che alcun automatismo risarcitorio sia peraltro
predicabile.
3.3. Il sistema risarcitorio del danno non patrimoniale,
così inteso, conserva, dunque, una sua intima coerenza, e consente
l'applicazione dei criteri posti a presidio della sua applicazione senza
soluzioni di continuità o poco ragionevoli iati dovuti alla specifica tipologia
di diritti costituzionalmente tutelati.
Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta
costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del
danno relazione/proiezione esterna dell'essere, e del danno
morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.
3.4. In tal senso sembra meritoriamente indirizzarsi,
d'altronde, uno dei più recenti progetti di riforma dell'intero sistema del
danno non patrimoniale, presentato dal vicepresidente della Commissione
Giustizia della Camera dei deputati, progetto che, nel proporre la riforma
dell'art. 2059 c.c., prevede, testualmente: Art. 2059 - (Danno non
patrimoniale) - il danno non patrimoniale è risarcibile qualora il fatto
illecito abbia leso interessi o valori della persona costituzionalmente
tutelati.
Il risarcimento del danno non patrimoniale ha ad oggetto
sia la sofferenza morale interiore sia l'alterazione dei precedenti aspetti
dinamico-relazionali della vita del soggetto leso.
4. Sarà dunque compito del giudice chiamato a valutare
dell'uno e dell'altro aspetto di tale sofferenza procedere ad una riparazione
che, caso, per caso, nella unicità e irripetibilità di ciascuno delle vicende
umane che si presentano dinanzi a lui, risulti da un canto equa, dall'altro
consonante con quanto realmente patito dal soggetto - pur nella inevitabile
consapevolezza della miserevole incongruità dello strumento risarcitorio a
fronte del dolore dell'uomo, che dovrà rassegnarsi a veder trasformato quel
dolore in denaro.
4.1. La questione si sposta così sul piano della prova
del danno, la cui formazione in giudizio postula, va sottolineato ancora una
volta, la consapevolezza della unicità e irripetibilità della vicenda umana
sottoposta alla cognizione del giudice, altro non significando il richiamo
"alle condizioni soggettive del danneggiato" che il legislatore ha
opportunamente trasfuso in norma.
Prova che, come efficacemente rammentato della sentenze
delle sezioni unite del 2008, potrà essere fornita senza limiti, e dunque
avvalendosi (anche) anche delle presunzioni e del notorio. E di tali mezzi di
prova il giudice di merito potrà disporre alla luce di una ideale scala
discendente di valore dimostrativo, volta che essi, in una dimensione speculare
rispetto alla gravità della lesione, rivestiranno efficacia tanto maggiore
quanto più sia ragionevolmente presumibile la gravità delle conseguenze, intime
e relazionali, sofferte dal danneggiato.
Delle quali, peraltro, va ripetuto, nessun automatismo è
lecito inferire.
5. In tal senso precisato il contenuto della motivazione
della sentenza oggetto dell'odierna impugnazione, pur dovendosi procedere alla
sua integrazione nei sensi che precedono, ritiene il collegio, con riguardo
tanto alla liquidazione del danno personalmente subito dalla vittima, quanto a
quello sofferto dai suoi congiunti a titolo di perdita del rapporto parentale
(che, al pari di tutti gli altri danno conseguenti alla lesione di un
diritto/interesse costituzionalmente tutelato, in nulla differisce, sul piano
morfologico, dal danno alla salute - salva l'esistenza, per quest'ultimo, di
una definizione legislativa che ne copre l'aspetto tanto strutturale quanto
funzionale), che il giudice di merito ha mostrato di considerare tout court, di
quell'evento, tanto l'aspetto interiore della sofferenza morale, quanto quello
relazionale, con riferimento sia alla vittima "primaria" che ai prossimi
congiunti, procedendo poi alla liquidazione di una somma che, per quanto
unitariamente considerata e unitariamente liquidata, ne presuppone pur sempre
una concreta (benchè non puntualmente espressa) ripartizione a fronte dei due
diversi e non sovrapponibili aspetti del danno subito.
Nella liquidazione del danno iure heraeditario, difatti,
la Corte di merito ha considerato sia la ("più lunga e dolorosa")
durata della malattia e della relativa incidenza sulla vita di relazione della
signora Z., sia la sofferenza morale da questa patita, descritta nella duplice
dimensione di una ben più concreta paura della morte e del dubbio che una
diagnosi precoce le avrebbe evitato le sofferenze patite.
La liquidazione del danno iure proprio, a sua volta, ha
avuto riguardo sia alla sofferenza patita in conseguenza della perdita della
moglie e della madre da parte dei ricorrenti, sia al dissolversi del progetto
di vita insieme.
Nell'uno come nell'altro caso, risultano adeguatamente
considerati entrambi gli aspetti del danno
come sopra ricordati.
IL RICORSO INCIDENTALE DEL CENTRO CLINICO 3 C. Con il
primo motivo, si denuncia motivazione omessa e/o insufficiente su di un punto
decisivo della controversia fondante la responsabilità del centro clinico
chimico. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto per aver fondato
la responsabilità del centro clinico su di un titolo di responsabilità
contrattuale.
Con il secondo motivo, si denuncia insufficiente e omessa
motivazione relativamente all'accertamento della responsabilità del centro
clinico - Violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..
Con i due motivi in esame, si censura la sentenza della
Corte territoriale:
- nella parte in cui ha ritenuto predicabile, nella
specie, un rapporto di tipo contrattuale tra la paziente e il Centro Clinico,
che, di converso, svolgeva funzioni di tipo soltanto amministrativo rispetto
all'attività del P., al pari di ogni poliambulatorio che non avendo funzioni di
ospedalizzazione, non ha alcuna funzione di protezione del terzo-paziente, non
intercorrendo tra il medico e la struttura alcun rapporto di ausiliarietà;
- nella parte in cui non avrebbe comunque motivato in
ordine all'accertamento della diretta responsabilità del Centro.
Le doglianze sono infondate, avendo la Corte territoriale
fatto buon governo dei principi dettati, con ormai consolidata giurisprudenza,
da questa Corte regolatrice in tema di qualificazione giuridica dei rapporti
tra paziente e strutture sanitarie (tra cui i poliambulatori), comunemente
ricondotti entro l'orbita applicativa dell'art. 1228 c.c., con specifico
riguardo alla figura dell'ausiliario necessario (onde l'infondatezza del
secondo motivo di doglianza).
L'indagine in ordine alla natura del rapporto intercorso
nella specie tra il Centro e la signora Z. costituisce, inoltre, questione di
merito sottratta al vaglio di questa Corte, poichè congruamente e correttamente
motivata, avendo il giudice d'appello all'uopo rilevato (come d'altronde
ammesso espressamente dallo stesso contro ricorrente al folio 23 dell'odierno
atto di impugnazione) l'esistenza di sicuri indici di contrattualità del
rapporto (contabilizzazione delle prestazioni, ricezione di telefonate per
appuntamenti, messa a disposizione di una stanza con il supporto di personale
infermieristico, fissazione e colorazione dei vetrini degli esami diagnostici).
L'indiscutibile collegamento necessario esistente nella
specie tra la prestazione compiuta dal medico e l'organizzazione aziendale
rende pertanto irrilevante la circostanza che questi sia stato scelto dal
paziente nell'ambito di un autonomo rapporto contrattuale di tipo
professionale.
Con il terzo motivo, si denuncia insufficiente e omessa
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio - Violazione
degli artt. 111 e 24 Cost..
Il rigetto del motivo - che lamenta un preteso error
iuris in cui sarebbe incorsa la Corte di appello nelle sua valutazioni della
CTU - trae fondamento dalle considerazioni già svolte funditus in occasione
dell'esame di analogo motivo svolto dal ricorrente principale.
Con il quarto motivo, si denuncia insufficiente e omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia in merito alla formulata
domanda di manleva del Centro Clinico nei confronti dell'assicurazione nella
parte in cui questa è riconosciuta limitatamente alla somma prevista dal
massimale di polizza - Violazione e falsa applicazione del disposto dell'art.
1917 c.c..
Il motivo è infondato.
Correttamente, difatti, la domanda è stata rigetta perchè
mai proposta in primo grado, in applicazione di una ferma giurisprudenza di
questa Corte (Cass. 23195/2010; Cass. 3807/2004 ex multis).
Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge -
violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c..
La censura - con cui ci si duole della condanna alla
corresponsione degli interessi legali in difetto di una specifica domanda da
parte degli attori - è infondata, avendo la Corte territoriale correttamente
applicato il principio di diritto affermato, in subiecta materia, da Cass.
1335/2009, a mente del quale il danno da inadempimento di obbligazioni diverse
da quelle pecuniarie costituisce debito di valore al pari dell'obbligazione
risarcitoria di tipo aquiliano, senza che sia necessaria una apposita domanda
all'uopo formulata anche con riferimento al periodo successivo alla sentenza di
condanna.
Di qui l'assorbimento del sesto motivo di ricorso, che
lamenta, sulla medesima questione, una pretesa (ma in realtà insussistente)
contrarietà del (corretto) dispositivo rispetto alla motivazione.
Al rigetto dei ricorsi e alla complessità delle questioni
trattate consegue la integrale compensazione delle spese del giudizio di
cassazione tra tutte le parti costituite.
PQM
La Corte, riuniti i
ricorsi, li rigetta e dichiara compensate le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in
Roma, il 3 febbraio 2015.
Depositato in
Cancelleria il 9 giugno 2015