venerdì 24 gennaio 2014

La Cassazione sul contratto con sè stesso

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Cassazione civile, Sez. VI, 4 novembre 2013, n. 24674

MASSIMA

È annullabile il contratto concluso dal rappresentante con sé stesso se la procura, che pure l'autorizza a un simile contratto, non contiene una determinazione degli elementi negoziali sufficiente a tutelare il rappresentato, e, in particolare, l'indicazione di un prezzo minimo per la vendita dell'immobile avvenuta, secondo una perizia, a valori dimezzati rispetto a quelli di mercato.

SENTENZA

FATTO E DIRITTO
Ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., il relatore nominato per l'esame del ricorso ha depositato la seguente relazione.
"Osserva in fatto.
Con citazione del 15/7/2004 B.A., quale tutore di M.V. in stato di interdizione legale a seguito di sentenza penale passata in giudicato il 21/9/2001, conveniva in giudizio O.T. chiedendo la restituzione di un immobile previo annullamento di un contratto di vendita stipulato in data 28/3/2001 dalla convenuta con sè stessa in forza di procura speciale rilasciata dal M. in data 22/3/2001; con la procura il rappresentato aveva incaricato la O. di vendere l'unico immobile di sua proprietà al prezzo ritenuto conveniente e l'aveva autorizzata a vendere anche a sè stessa; l'attrice sosteneva che il prezzo convenuto per la vendita (L. 55.000.000) non raggiungeva neppure la metà di quello commerciale dell'epoca della vendita, pari a Euro 65.000,00, come da perizia che produceva.
Con sentenza del 7/11/2006 il Tribunale di Milano rigettava la domanda attorea e la sentenza era confermata dalla Corte di appello di Milano che, con sentenza del 24/11/2010 osservava:
- che il requisito della specificità della autorizzazione a contrarre con sè stessa era realizzato dalla duplice previsione che la vendita doveva essere effettuata a prezzo conveniente e che alla procuratrice era conferita la facoltà di determinare il prezzo della vendita;
- che l'elemento della convenienza del prezzo era stato correttamente valutato da primo giudice con riferimento all'esistenza di formalità che dovevano essere cancellate a cura dell'acquirente, e alla situazione di fatto dell'attrice che abitava l'immobile con il figlio minore.
B.A., quale tutore di M.V. in stato di interdizione legale ha proposto ricorso per cassazione passato in notifica il 15/11/2011 e notificato il 24/11/2011.
O.T. è rimasta intimata.
Osserva in diritto.
1. Con l'unico motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione dell'art. 1395 c.c., e il vizio di motivazione lamentando che immotivatamente la Corte di appello di Milano ha ritenuto che la procura a vendere al prezzo ritenuto conveniente, con facoltà di contrarre con sè stessa e di determinare il prezzo di vendita, sia sufficientemente univoca per evitare abusi del rappresentato (e quindi il conflitto di interessi) e idonea a realizzare il requisito della specificità dell'autorizzazione e richiama giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l'attribuzione della facoltà di vendere al prezzo ritenuto conveniente non integra il requisito della specificità; la ricorrente aggiunge che l'atto era altresì pregiudizievole in quanto l'immobile era stato venduto ad un prezzo (L. 50.000.000) molto inferiore a quello stimato (Euro 65.000) da un perito e che l'onere economico rappresentato dalle formalità da cancellare era costituito solo da adempimenti formali in quanto i debiti per i quali vi erano iscrizioni e trascrizioni erano stati estinti.
1.1 Il motivo è manifestamente fondato.
Gli artt. 1394 e 1395 c.c., rispettivamente prevedono: a) che il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato può essere annullato se il conflitto era conoscibile dal terzo; b) che è annullabile il contratto concluso dal rappresentante con sè stesso, in proprio o quale rappresentante di un'altra parte, salvo che non vi sia stata specifica autorizzazione, ovvero che il contenuto del contratto sia stato predeterminato, in modo da escludere il conflitto.
Le due disposizioni costituiscono eccezioni al principio generale della irrilevanza del profilo obbligatorio attinente al rapporto interno rappresentante - rappresentato sull'efficacia della legittimazione attribuita al primo.
In particolare l'art. 1395 c.c., prevede una presunzione iuris tantum di conflitto di interessi, che può essere superata esclusivamente - con una indicazione che assume dunque i connotati della tassatività -dalla dimostrazione dell'esistenza, in via alternativa, di due condizioni: una autorizzazione specifica, ovvero la predeterminazione degli elementi negoziali (Cass. 21/11/2008 n. 27783); perchè si realizzino queste condizioni è necessario un ruolo attivo e partecipe del rappresentato nella fase prodromica alla conclusione dell'atto (cfr. Cass. 24/3/2004 n. 5906;Cass. 15/5/2009 n. 11321 e Cass. 15/3/2012 n. 4143).
Sulla base di tali principi questa Corte ha ripetutamente affermato:
che in tema di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante con se stesso l'autorizzazione data dal rappresentato al rappresentante a concludere il contratto con se stesso in tanto può considerarsi idonea ad escludere la possibilità di un conflitto di interessi e quindi l'annullabilità del contratto, in quanto sia accompagnata dalla puntuale determinazione degli elementi negoziali sufficienti ad assicurare la tutela del rappresentato; ne consegue che tale autorizzazione non è idonea quando risulti generica, non contenendo, tra l'altro (come nella specie), alcuna indicazione in ordine al prezzo della compravendita, che impedisca eventuali abusi da parte del rappresentante (Cass. 6398/11; 5906/04; 14982/02);
- che per la configurabilità del conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato che, se conosciuto o conoscibile dal terzo, rende annullabile il contratto concluso dal rappresentante, ai sensi dell'art. 1394 cod. civ. non ha rilevanza, di per sè, che l'atto compiuto sia vantaggioso o svantaggioso per il rappresentato e che non è necessario provare di aver subito un concreto pregiudizio, perchè il rappresentato possa domandare o eccepire l'annullabilità del negozio (Cass. 15981/07);
- quanto alle due ipotesi in presenza delle quali è esclusa l'annullabilità del contratto, che l'annullabilità del contratto posto in essere dal rappresentante con se stesso, è esclusa nelle due ipotesi, previste, in via alternativa, dall'art. 1395 c.c., dell'autoritario ne specifica e della predeterminazione del contenuto del contratto (cfr. Cass. 22/4/1997 n. 3471, 15 maggio 2009, n. 11321). Ricorre la prima ipotesi quando il rappresentato autorizzi specificamente il rappresentante a concludere il contratto con sè medesimo, determinando gli elementi negoziali sufficienti ad assicurare la tutela dei suoi interessi o la predeterminazione degli elementi negoziali (Cass. 7.5.1992, 5438) (così Cass. 21/3/2011 n. 6398).
La conseguenza è che la validità del contratto è legata alla indicazione, nella procura, dei requisiti minimi negoziali perchè altrimenti l'interesse perseguito non sarebbe più quello del rappresentato, ma quello del rappresentante; ciò che è escluso dalle finalità che la norma persegue.
Nella specie, il contenuto della procura, in particolare la facoltà contrarre con sè stesso, di determinare il prezzo di vendita e di vendere al prezzo che riterrà conveniente è tale da non consentire l'individuazione di alcuna preventiva indicazione dei requisiti minimi che il contratto avrebbe dovuto contenere (cfr. quali precedenti conformi con riferimento a identica formula: Cass. 24/3/2004 n. 5906; Cass. 15/5/2009 n. 11321).
La sentenza impugnata ha applicato con motivazione insufficiente l'art. 1395 c.c. ritenendo che l'espressa autorizzazione a concludere il contratto con se stesso fosse idonea a escludere il conflitto e non motivando sulla base di quali parametri oggettivi o di quali concreti elementi di riferimento avrebbe potuto essere determinato il prezzo, posto che il requisito della specificità dell'autorizzazione di cui all'art. 1395 c.c., deve essere riferito anche alla specificità dei criteri di determinazione dell'elemento essenziale del prezzo.
3. In conclusione, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c., per essere dichiarato manifestamente fondato".
Considerato che il ricorso è stato fissato per l'esame in camera di consiglio, che sono state effettuate le comunicazioni alle parti costituite e la comunicazione al P.G.;
Rilevato che l'intimata non si è costituita;
Considerato che il collegio condivide e fa proprie le argomentazioni e la proposta del relatore e che pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano (che provvederà anche in ordine alle spese di questo giudizio di cassazione) che dovrà valutare, con specifica e adeguata motivazione, l'esistenza di una specifica autorizzazione al rappresentante a concludere il contratto anche con sè stesso, accompagnata dall'individuazione dei criteri idonei a determinare il prezzo di vendita, tenendo conto che la generica facoltà contrarre con sè stesso e di determinare il prezzo di vendita e di vendere al prezzo ritenuto conveniente non costituiscono idonei ad individuare la necessaria preventiva indicazione dei requisiti minimi che il contratto avrebbe dovuto contenere anche con riferimento all'elemento essenziale costituito dal prezzo di vendita e, quindi, ad escludere il conflitto di interessi.
P.Q.M.

La Corte di cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

martedì 21 gennaio 2014

La Cassazione sul contratto di locazione stipulato dal non proprietario.

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Cassazione civile, Sez. III, 19 novembre 2013, n. 25911

MASSIMA

Il contratto di locazione di immobile può essere legittimamente stipulato anche con soggetto locatore non proprietario del cespite. Quest'ultimo deve soddisfare il diritto del conduttore a godere pacificamente dell'immobile, in caso contrario, risulta inadempiente per una delle sue principali obbligazioni (art. 1575 c.c.), quindi, risponderà dei danni eventualmente scaturenti.

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Nel 1989 il sig. D.V.L. convenne dinanzi al Tribunale di Verona il sig. S.R., esponendo che:
(a) nel 1987 aveva stipulato col convenuto un contratto di locazione di un immobile sito a (OMISSIS), che intendeva destinare a sede della propria attività professionale;
(b) al momento della stipula del contratto il sig. S.R. non era proprietario, nè legittimo detentore dell'immobile locato;
(c) l'effettivo proprietario, sig.a M.C., aveva chiesto ed ottenuto dal conduttore il rilascio dell'immobile.
Sulla base di queste circostanze di fatto il sig. D.V.L. chiese al Tribunale di Verona:
(-) di dichiarare risolto il contratto di locazione per inadempimento del locatore;
(-) di condannare quest'ultimo al risarcimento del danno consistito sia nei costi inutilmente sostenuti per arredare l'immobile ed avviare l'attività professionale poi forzosamente interrotta, sia nella perdita dei lucri che l'esercizio dell'impresa in quella particolare sede gli avrebbe garantito.
1.1. Il Tribunale di Verona nel 1996 accolse la domanda, dichiarò risolto il contratto e condannò il convenuto al risarcimento del danno, liquidato in L. 60.000.000, più gli interessi di mora.
1.2. La sentenza, appellata dal sig. S.R., venne riformata dalla Corte d'appello di Venezia (sentenza n. 771 del 1999), la quale ritenne che il conduttore sig. D.V.L., a fronte della richiesta di rilascio formulata dal vero proprietario dell'immobile, avrebbe ben potuto opporgli il proprio titolo ai sensi dell'art. 1606 c.c.: di conseguenza, il rilascio dell'immobile non poteva ritenersi un danno causato dall'inadempimento del locatore.
1.3. La sentenza della Corte d'appello di Venezia venne cassata con rinvio da questa Corte (Sez. 3, Sentenza n. 7189 del 12/05/2003), la quale ritenne erronea l'applicazione dell'art. 1606 c.c., e quindi inopponibile la locazione al vero proprietario dell'immobile, se il locatore, al momento della stipula del contratto, non era titolare del diritto di dare in locazione l'immobile, a nulla rilevando che egli ne avesse il possesso senza titolo.

venerdì 17 gennaio 2014

La Cassazione sugli obblighi restitutori del promissario acquirente.

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Cassazione civile, Sez. VI, ordinanza del 10 ottobre 2013, n. 23035

MASSIMA

Il promissario acquirente di un fondo agricolo, che ne abbia conseguito la disponibilità a titolo di anticipata esecuzione di un contratto preliminare poi dichiarato nullo, in quanto detentore della cosa, è tenuto a restituire non solo il bene indebitamente goduto, ma anche le utilità "ab initio" ricavate dallo stesso, non rilevando, al riguardo, la disposizione di cui all'art. 1148 cod. civ., la quale limita temporalmente l'obbligo restitutorio dei frutti per il possessore in buona fede con decorrenza dal giorno della domanda giudiziale.

SENTENZA

FATTO E DIRITTO
Si riporta di seguito la relazione preliminare ex art. 380 bis c.p.c. del 6/30.5.2013.
Con la sentenza di cui sopra la corte tarantina, nel definire un annoso e complesso giudizio scaturito da un contratto preliminare di compravendita stipulato il 23.5.1984 tra S.D. e S.I. 23.5.1984, ad oggetto di un podere dell'ente di riforma fondiaria di cui il primo, promittente venditore, era assegnatario con patto di riservato dominio la cui nullità è risultata accertata, con condanna al rilascio del secondo, promissario acquirente e detentore, ha, tra l'altro e per quanto ancora rileva in questa sede: a) condannato il medesimo alla restituzione, per quanto di rispettiva ragione, agli eredi del promittente venditore, in epigrafe indicati, nonchè ad M. A., intervenuta in giudizio ex art. 111 c.p.c., quale successiva legittima acquirente (in virtù di atto del 1993) del predio (che S.D. aveva precedentemente riscattato), dei frutti percepiti dal fondo in questione a partire dall'annata agraria 1986/87 fino a quella 2001/2002, provvedendo alle relative liquidazioni sulla scorta della consulenza tecnica; b) confermato la statuizione del primo giudice, che nel condannare gli eredi del promittente venditore alla restituzione al promissario acquirente del prezzo ricevuto all'atto dell'invalido contratto preliminare, ha escluso la richiesta estensione di tale condanna anche alla M., ritenendo tale obbligazione personale a S. D. (e per lui ai suoi eredi) e non trasferibile alla acquirente, ancorchè intervenuta ex art. 111 c.p.c. .
Di tali statuizioni si è doluto S.I., proponendo ricorso per cassazione affidato a due motivi, deducenti violazione e falsa applicazione, rispettivamente, dell'art. 1148 cod. civ. e art. 111 c.p.c., nonchè (nel primo) omessa ed insufficiente motivazione.
Il ricorso, cui hanno resistito sia gli eredi di S.D., sia la M., ad avviso del relatore è manifestamente infondato in tutte le esposte censure.
Quanto alla prima, con la quale si invoca l'inapplicabilità dell'art. 1148 c.c., ai detentori, quali debbono qualificarsi i promissari acquirenti cui il bene sia stato anticipatamente consegnato, secondo la giurisprudenza di questa Corte (S.U. 7930/08 e successive varie pronunzie sezionali), la stessa è inconferente.
La norma sopra citata, invero, stabilisce un principio secondo cui il possessore di buonafede, tenuto alla restituzione di un bene, risponde dei frutti percepiti o percipiendi nei confronti del rivendicante soltanto a partire dalla data della domanda giudiziale.
Trattasi, come ha ben precisato la corte di merito, di una limitazione dell'obbligo di rimborso di cui possono avvalersi i soli possessori, ove il possesso (e non anche la detenzione) sia stato connotato dal suddetto elemento psicologico, che non autorizza ad escludere l'obbligo di restituzione di tali frutti, percepiti anche in epoca antecedente alla domanda, in tutti gli altri casi in cui tale percezione sia stata indebita, in quanto non assistita - come nel caso di specie - da un valido titolo.
Inammissibile, in quanto non evidenziante lacune o illogicità argomentative, è il secondo profilo del primo motivo, attinente alla liquidazione delle somme come sopra dovute, che correttamente e sulla scorta di incensurabile valutazione basata sulla consulenza tecnica, è stata effettuata tenendo conto della accertata produttività del fondo in questione, interessato da agrumeti e vigneti, in difetto di alcuna prova di fatti contrari (incombenti sul debitore, in quanto estintivi, modificativi o impeditivi del diritto ex adverso azionato), eccezionalmente ostativi o limitativi della naturale redditività connessa alla destinazione propria del bene.
Manifestamente infondato è il secondo motivo, non potendo l'obbligazione di restituzione della somma, indebitamente percepita dell'originario proprietario del fondo a titolo di prezzo della futura vendita trasferirsi a carico dell'acquirente successiva del fondo, la cui sopravvenuta titolarità del bene controverso comportaci sensi dell'art. 111 c.p.c., l'estensione alla stessa soltanto degli effetti reali e restitutori della decisione, direttamente attinenti al bene oggetto del diritto controverso, trasferito incorso di giudizio, e non anche di obbligazioni personalmente contratte, in quanto accipiens, dal suo dante causa. Si propone, conclusivamente, la reiezione del ricorso".
Tanto premessoci collegio condivide integralmente le ragioni reiettive esposte nella relazione, rilevando che nelle memorie depositate da parte ricorrente non vengono evidenziati ulteriori significative argomentazioni atte a conferire consistenza al ricorso.
La difesa del ricorrente, pur non ponendo in discussione la qualità di detentore e non di possessore del proprio assistito (che questa Corte ha già, nel corso del presente processo, con sentenza n. 6489/2011, dichiarato, nel solco della precedente delle Sezioni Unite n. 7930/2008), sostiene che proprio in virtù di tale qualifica S.I. non sarebbe tenuto a restituire i frutti del fondo detenuto senza valido titolo, applicandosi la disposizione di cui all'art. 1148 c.c., ai soli possessori in buona fede e non anche ai detentori, ipotizzando anche un contrasto tra la relazione e la giurisprudenza di legittimità, in particolare con la sentenza n. 13368/2005.
La tesi, come è stato già evidenziato dalla corte di merito e ribadito dal relatore, è palesemente infondata, basandosi su una erronea interpretazione della sopra indicata norma civilistica (e della invocata giurisprudenza), che lungi dal limitare a tale categoria (dei possessori in buona fede) l'obbligo di restituzione in questione, costituisce invece un temperamento (analogo a quello contenuto nell'art. 2033 c.c., in tema di pagamento indebito) del principio generale, secondo cui la pronunzia dell'invalidità del titolo comporta un integrale effetto ripristinatorio, in virtù del quale devono essere dall'accipiens restituiti non solo il bene indebitamente goduto in base allo stesso, ma anche le utilità ab initio dallo stesso ricavate; principio applicabile sia ai possessori, sia ai detentori (o apparenti tali), con la sola limitazione temporale, quanto ai primi, ove in buona fede e relativamente ai frutti, della decorrenza dalla domanda giudiziale.
La lettura della motivazione (e non della sola massima) della sentenza Cass. n. 13368/2005, del resto, non consente dubbi di sorta, rilevandosi dalla stessa (v. pagg. 14 e 15) che, con il quarto motivo dalla Corte respinto, parte ricorrente aveva lamentato che l'indennità per il mancato godimento del bene oggetto del caducato contratto preliminare fosse stata attribuita al promittente venditore con decorrenza dall'inizio dell'occupazione e non soltanto dalla domanda giudiziale, come previsto dall'art. 1148 c.c.. Tale censura il giudice di legittimità disattese, osservando che la norma non poteva trovare applicazione nel caso di specie, non essendo il promissario acquirente un possessore (in buona o in mala fede), bensì un semplice detentore, così confermando la correttezza della decisione impugnata, che aveva appunto riconosciuto l'indennità (vale a dire il corrispettivo dei frutti non percepiti) ab initio.
Non sussiste, pertanto, alcuna necessità di rimettere la questione alle Sezioni Unite, come richiesto dalla difesa del ricorrente, le cui ulteriori doglianze, secondo cui sussisterebbe una situazione di squilibrio economico tra le parti (avendo il promittente venditore ricevuto il pagamento anticipato del prezzo), neppure hanno ragione di essere, tenuto conto che il menzionato principio generale restitutorio comporta non solo il rimborso del prezzo, ma anche quello degli interessi, secondo le regole di cui all'art. 2033 c.c..
Sul secondo e terzo motivo nulla di significativo è stato aggiunto nelle memorie, per cui è sufficiente il rinvio alla relazione.
Il ricorso va conclusivamente respinto, con condanna del ricorrente alle spese.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio in favore dei controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.

martedì 14 gennaio 2014

Le motivazioni della Corte Costituzionale sul c.d. PORCELLUM

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SENTENZA N. 1
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59 e 83, comma 1, n. 5 e comma 2 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo risultante dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalla legge n. 270 del 2005, promosso dalla Corte di cassazione nel giudizio civile vertente tra Aldo Bozzi ed altri e la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altro con ordinanza del 17 maggio 2013 iscritta al n. 144 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di costituzione di Aldo Bozzi ed altri;
udito nell’udienza pubblica del 3 dicembre 2013 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Claudio Tani, Aldo Bozzi e Felice Carlo Besostri per Aldo Bozzi ed altri.


Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 17 maggio 2013, la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59 e 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo in vigore con le modificazioni apportate dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), nonché degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo in vigore con le modificazioni apportate dalla legge n. 270 del 2005, in riferimento agli artt. 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, anche alla luce dell’art. 3, protocollo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952).
1.1.– Il rimettente premette di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso promosso nei confronti della sentenza della Corte d’appello di Milano, resa il 24 aprile 2012, con cui quest’ultima, confermando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda con la quale un cittadino elettore aveva chiesto che fosse accertato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in coerenza con i principi costituzionali.
In particolare, la Corte di cassazione precisa che il suddetto cittadino elettore aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno, deducendo che nelle elezioni per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica svoltesi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 270 del 2005 e, specificamente, in occasione delle elezioni del 2006 e del 2008, egli aveva potuto esercitare il diritto di voto secondo modalità configurate dalla predetta legge in senso contrario ai principi costituzionali del voto «personale ed eguale, libero e segreto» (art. 48, secondo comma, Cost.) ed «a suffragio universale e diretto» (artt. 56, primo comma e 58, primo comma, Cost.). Pertanto, chiedeva fosse dichiarato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in modo libero e diretto, secondo le modalità previste e garantite dalla Costituzione e dal protocollo 1 della CEDU, e quindi chiedeva di ripristinarlo secondo modalità conformi alla legalità costituzionale. A tal fine eccepiva l’illegittimità costituzionale di svariate disposizioni delle leggi elettorali della Camera e del Senato. Il Tribunale di Milano, dinanzi al quale svolgevano interventi ad adiuvandum venticinque cittadini elettori, con sentenza del 18 aprile 2011, rigettava le eccezioni preliminari di inammissibilità per difetto di giurisdizione e insussistenza dell’interesse ad agire e, nel merito, respingeva le domande, giudicando manifestamente infondate le proposte eccezioni di illegittimità costituzionale. Avverso tale decisione veniva proposto appello che veniva, tuttavia, anche quanto alla fondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale, respinto nel merito.
1.2.– In linea preliminare, la Corte di cassazione rileva, anzitutto, che sulla questione della sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 100 del codice di procedura civile, in specie sull’interesse dei predetti a proporre un’azione di accertamento della pienezza del proprio diritto di voto, quale diritto politico di rilevanza primaria, di cui sarebbe precluso l’esercizio in modo conforme alla Costituzione dalla legge n. 270 del 2005, si è formato il giudicato, considerato che i giudici di merito avevano respinto le relative eccezioni delle amministrazioni convenute in giudizio e che queste ultime non hanno proposto ricorso incidentale.
1.3.– Il rimettente afferma, inoltre, che anche sulla questione della giurisdizione si è formato il giudicato, non essendo stata più riproposta. Un’azione di accertamento di un diritto, d’altra parte, non avrebbe potuto che essere promossa dinanzi al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti fondamentali, non interferendo in nessun modo con la giurisdizione riservata alle Camere, tramite le rispettive Giunte parlamentari (art. 66 Cost.), in tema di operazioni elettorali.

venerdì 10 gennaio 2014

La Cassazione sul preliminare di vendita di immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.

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Cassazione Civile, Sez. II, 17 ottobre 2013, n. 23591

MASSIMA

Il contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è nullo per la comminatoria di cui all'art. 40, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, che, sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per contrarietà a norma imperativa.

SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. I signori D.C.V. e M.L., convenivano in giudizio i sig. Z.G. e Mi.An., dai quali, per il prezzo reale di L. 49.000.000, indicato nell'atto in L. 19.300.000, avevano acquistato un appartamento sito in (OMISSIS), per sentir dichiarare la nullità del contratto di compravendita ai sensi della L. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40, e L. n. 10 del 1977, art. 15, anche per illiceità dell'oggetto.
I venditori avevano dichiarato che l'immobile era stato realizzato in conformità alle licenze edilizie n. 24/75 e 6/80, pur essendo stata realizzata una mansarda dal sottotetto non abitabile.
In subordine, gli attori chiedevano l'annullamento del contratto per errore essenziale, determinato anche da dolo dei venditori, i quali avevano dichiarato falsamente la legittimità della costruzione.
In ulteriore, subordine chiedevano dichiararsi la risoluzione del contratto per grave inadempimento dei venditori, i quali avevano trasferito aliud pro alio.
In ogni caso, veniva chiesta la condanna dei convenuti alla restituzione del prezzo ed al rimborso delle spese sostenute per l'acquisto, maggiorati di interessi e rivalutazione, oltre risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio.