sabato 30 giugno 2012

Separazione: il giudice può imporre limiti all'educazione religiosa del figlio.



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Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito che i figli affidati ai genitori, a seguito della separazione degli stessi, non devono subire le influenze in ambito di credo religioso.
Il caso vede protagonisti una coppia di coniugi che ottenevano, al termine della loro relazione matrimoniale, l'affidamento condiviso del figlio.
Il bambino, regolarmente battezzato e di religione cattolica, viveva con la madre la quale nel corso degli anni si era convertita a un altro credo e, già in costanza di matrimonio, aveva più volte cercato di coinvolgere il figlio nella sua scelta.
Il Giudice , pur avendo affidato il figlio a entrambi i genitori, aveva però vietato alla donna di "indottrinare" il bambino imponendo alla stessa di non coinvolgerlo nella sua nuova scelta religiosa.
L'ex moglie però, ravvisando una violazione dei suoi diritti fondamentali, proponeva ricorso in appello sostenendo che i limiti imposti dal Giudice fossero eccessivi e illegittimi.
Le pretese non venivano accolte e la donna proponeva ricorso dinanzi ai Giudici di Piazza Cavour sostenendo che "il giudice (d’Appello) non possa [...] imporre precisi limiti ai contenuti del suo rapporto con il figlio ed alle forme della loro comunicazione ed interazione, comprimendo le prerogative materne in punto d’istruzione ed educazione della prole, discriminandola rispetto al padre (cattolico o agnostico), in ragione della sua diversa confessione religiosa, [...] e limitando il suo diritto di professare liberamente tale sua fede in presenza del minore che prevalentemente convive con lei”.
La Corte di Cassazione, con sentenza numero 9546 del 12 Giugno 2012, ha ribadito quanto affermato in secondo grado sostenendo che le tesi della donna non potevano essere accolte poichè , in virtù dell'art. 155 c.c.[1] il Giudice deve anteporre sempre l'interesse morale e materiale della prole in sede di separazione.
Il predetto articolo rappresenta uno degli elementi cardine del c.d. "affido condivido" introdotto dalla Legge  8 febbraio 2006, n.54
Nella motivazione gli Ermellini sostengono infatti che “l’art. 155 cod. civ., in tema di provvedimenti riguardo ai figli nella separazione personale dei coniugi, consente al giudice di fissare le modalità della loro presenza presso ciascun genitore e di adottare ogni altro provvedimento ad essi relativo, attenendosi al criterio fondamentale rappresentato dal superiore interesse della prole, che assume rilievo sistematico centrale nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 della Costituzione.
L’esercizio in concreto di tale potere, dunque, deve costituire espressione di conveniente protezione ( art. 31, comma 2 Cost.) del preminente diritto dei figli alla salute e ad una crescita serena ed equilibrata e può assumere anche profili contenitivi dei rubricati diritti e libertà fondamentali individuali, ove le relative esteriorizzazioni determinino conseguenze pregiudizievoli per la prole che vi presenzi, compromettendone la salute psico-fisica e lo sviluppo; tali conseguenze, infatti, oltre a legittimare le previste limitazioni ai richiamati diritti e libertà fondamentali contemplati in testi sovranazionali, implicano in ambito nazionale il non consentito superamento dei limiti di compatibilità con i pari diritti e libertà altrui e con i concorrenti doveri di genitore fissati nell’art 30, primo comma della Costituzione e nell’art. 147 del codice civile”.



[1] Art. 155.

Provvedimenti riguardo ai figli.
Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.
La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
4) le risorse economiche di entrambi i genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L'assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

Le clausole di regolazione del premio nei contratti di assicurazione.



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Il tema delle ormai sempre più diffuse “Clausole di regolazione del premio” necessita di un preliminare cenno circa le cc. dd. “condizioni generali di contratto” e il conseguente regime delle “clausole vessatorie”.
In particolare, le condizioni generali di contratto sono le clausole che uno dei contraenti (rectius, il predisponente) utilizza per regolare, uniformemente,  i propri rapporti contrattuali. Esse si contrappongono, quindi, a quelle clausole che, normalmente, sono, invece, frutto di specifiche trattative tra i contraenti.
Il suddetto fenomeno ha dato luogo ai c.d. contratti di massa o per adesione nei quali il contenuto dell’accordo viene unilateralmente predisposto dal contraente forte (in genere l’imprenditore) e trasfuso in contratti-tipo mediante l’utilizzo di moduli e formulari (art. 1342 cod.civ.), non lasciando, quindi, all’aderente alcun margine di negoziazione.
Ciò premesso, le condizioni generali di contratto sono disciplinate dall’articolo 1341 cod.civ. secondo il quale “…esse sono efficaci nei confronti dell’altro contraente solo se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”.
E tuttavia, la stessa normativa al 2° comma precisa che le clausole che stabiliscono condizioni particolarmente favorevoli per il contraente c.d. “forte”, non hanno effetto se non sono specificatamente approvate per iscritto da parte dell’altro contraente, c.d. “debole”.

La natura del contratto di parcheggio meccanizzato nel caso di ubicazione in prossimità di mezzi di trasporto pubblici



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La quaestio iuris da risolvere è da rinvenire nell’applicabilità o meno al contratto di parcheggio della disciplina sul deposito con conseguente responsabilità ex recepto del gestore.
Preliminarmente è necessario evidenziare che il contratto di parcheggio sia un contratto atipico in quanto non espressamente previsto e disciplinato dal nostro ordinamento, ed anche misto considerato che presenta elementi distintivi di due contratti tipici quali quello di locazione e quello di deposito.
I contratti misti, pertanto,  sono disciplinati dalle norme relative all’uno o all’altro tipo contrattuale se ed in quanto con esso compatibili.
In particolare, oggetto del contratto di parcheggio meccanizzato è la messa a disposizione di uno spazio insieme alla custodia del veicolo.
Ed invero, era orientamento giurisprudenziale consolidato quello secondo il quale per la disciplina del contratto di parcheggio occorresse fare riferimento alle norme sul contratto di deposito, con conseguente obbligo di custodia della cosa depositata ex art. 1766 cod.civ.
Ciò in quanto, l’offerta della prestazione di parcheggio, cui segue l’accettazione attraverso l’immissione del veicolo nell’area, ingenera l’affidamento che in esso sia compresa la custodia (Cass. n. 3863/2004, n.1957/2002).

martedì 26 giugno 2012

Le Sezioni unite sull’abuso di dipendenza economica (traccia concorso magistratura 2012)


Cassazione civile, Sezioni Unite, 25 novembre 2011, ordinanza n. 24906

di Roberto Malzone

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L'abuso di dipendenza economica di cui all'art. 9 della legge n. 192 del 1998 configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall'esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un'impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l'abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o tornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998. Poiché l'abuso in questione si concretizza nell'eccessivo squilibrio di diritti e obblighi tra le parti nell'ambito di "rapporti commerciali", esso presuppone che tali rapporti siano regolati da un contratto, tant'è che il comma terzo dell'art. 9 cit. statuisce la nullità del "patto che realizza l'abuso" di dipendenza economica. 

Con la sentenza sopracitata le SS.UU. affrontano il delicato tema dell’abuso di dipendenza economica nei contratti fra imprese, regolato dalla L. n. 192 del 1998. 
Le disciplina legislativa definisce come dipendenza economica la “situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare , nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per a parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”. 
L’abuso può consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose e discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. 
Secondo la pronuncia in commento, la disciplina sull’abuso dettata dall’art 9 della L.cit. rappresenta una fattispecie di applicazione generale, a prescindere da uno specifico rapporto di fornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi. 
Il patto che realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ai sensi dell’art. 9 comma 3 L.192/98. 
Inoltre, la Corte di Cassazione, già in precedenti pronunce, ha affermato ce la realizzazione dell’abuso consiste in una violazione dei principi di buona fede e di correttezza, così che espone l’abusante all’inefficacia dell’atto e del risarcimento del danno (Cass. 20106/2009). 

giovedì 21 giugno 2012

Danno morale da indebito pignoramento di Equitalia.


Cassazione civile, sez. III, 11 giugno 2012, n. 9445
di Roberto Malzone

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In tema di responsabilità civile e di richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, quando è prospettato un illecito, astrattamente riconducibile a fattispecie penalmente rilevanti, (come nella specie, nella quale il danneggiato assume come causa del danno il pignoramento mobiliare eseguito, per un credito accertato come inesistente, nonostante la espressa richiesta al Comune e al Concessionario di interruzione del procedimento per il recupero del credito, e in mancanza di risposta a tale richiesta per spiegarne le ragioni, ed è ipotizzabile la fattispecie di reato prevista dall'art. 328, secondo comma, cod. pen.) per il quale la risarcibilità del danno non patrimoniale è espressamente prevista dalla legge, ai sensi degli artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen., spetta al giudice accertare, incindenter tantum e secondo la legge penale, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, indipendentemente dalla norma penale cui l'attore riconduce la fattispecie; accertamento che è logicamente preliminare all'indagine sull'esistenza di un diritto leso di rilievo costituzionale (cui sia eventualmente ricollegabile il risarcimento del danno non patrimoniale, secondo l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità oramai consolidata) potendo quest'ultimo venire in rilievo solo dopo l'esclusione della configurabilità di un reato; accertamenti, entrambi, preliminari alla indagine in ordine alla sussistenza in concreto (alla prova) del pregiudizio patito dal titolare dell'interesse tutelato”.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte riconosce il diritto al risarcimento del danno morale derivante da un illegittimo pignoramento mobiliare per un credito accertato come inesistente.
In particolare, l’avv. R.S. ha convenuto in giudizio il Comune di Roma e il Monte dei Paschi di Siena Spa, quale concessionario del servizio di riscossione dei tributi, e successivamente sostituito da Equitalia, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale poiché aveva subito il pignoramento, presso il proprio studio legale, a causa di un debito relativo a sanzioni amministrative che il Tribunale di Roma aveva dichiarato non dovuto con sentenza del 6 febbraio 2001.

lunedì 18 giugno 2012

La violenza dopo la separazione è motivo di addebito!


Cassazione civile, sez. I, 4 giugno 2012, n. 8928.

di Fabrizia Gaia Postiglione

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Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che gli episodi di violenza subiti dal coniuge, dopo l'avvenuta separazione, rappresentano una valida motivazione per richiedere l'addebito della stessa.
La decisione predetta si riferisce a un caso che vede protagonisti due coniugi che, in primo grado dal Tribunale di Cagliari, non si vedevano riconoscere le  rispettive pretese di addebito.
La Corte di Appello, in secondo grado, sosteneva che solo le ragioni della moglie erano fondate dal momento che l'episodio di violenza dalla stessa subito, seppur avvenuto a seguito della separazione, rappresentava un palese indizio della personalità del coniuge.
Sussistevano quindi gli elementi necessari per richiedere l'addebito della separazione nei confronti del coniuge violento.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 8928/2012 accoglieva e confermava la siffatta tesi sostenendo che ogni qual volta è possibile dimostrare  un episodio di violenza successivo alla separazione, il Giudice può considerare vere anche le denunce di precedenti comportamenti analoghi avvenuti prima della stessa.
Gli Ermellini, con la predetta sentenza, hanno precisato che "a fronte della dimostrata condotta violenta del ricorrente, per altro reiterata nel tempo, correttamente è stata accolta la domanda di addebito proposta dalla F. , venendo in considerazione violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse, e da esonerare il giudice del merito, che abbia accertato siffatti comportamenti, dal dovere di comparare con essi, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze. Infatti tali gravi condotte lesive, traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner, sono insuscettibili di essere giustificate come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento"

IL TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA:
Presidente Luccioli - Relatore Campanile
Svolgimento del processo
1 - Con sentenza in data 13 ottobre 2008 il Tribunale di Cagliari pronunciava la separazione personale dei coniugi F.A. e G.R. , rigettando le domande di addebito da entrambi proposte e ponendo a carico del marito un assegno mensile di Euro 400,00 a titolo di contributo per il mantenimento della F.
1.1 - La Corte di appello di Cagliari, con la decisione indicata in epigrafe, accogliendo l’impugnazione proposta in via principale dalla F. , dichiarava che la separazione era addebitabile al G., in considerazione della condotta aggressiva e violenta tenuta nei confronti della moglie. Venivano a tal fine apprezzate le risultanze emergenti da una sentenza penale pronunciata in sede di appello dallo stesso Tribunale, a seguito di impugnazione per i soli effetti civili proposta dalla F. , relativamente a un episodio lesivo verificatosi in data 3 febbraio 2003, in epoca successiva all’instaurazione del giudizio di separazione.

lunedì 11 giugno 2012

Se il coniuge è anaffettivo e poco incline agli affetti il matrimonio è annullabile!


Cassazione civile, sez. I, 31 maggio 2012, n. 8772

di Fabrizia Gaia Postiglione

Con sentenza n. 8772 del 31 maggio 2012 la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito l'annullamento del vincolo matrimoniale poichè il marito manifestava una grave anaffettività ed era poco incline agli affetti.
L'uomo, noto professionista, aveva richiesto la cessazione del vincolo dinanzi al Tribunale Ecclesiastico poichè, essendo consapevole del suo problema psicologico, soffriva della totale incapacità di provare sentimenti nei confronti della moglie.
La donna però si opponeva alla  decisione della Corte d'Appello e presentava ricorso in Cassazione ma, in questa sede, veniva ribadito l'orientamento dei Giudici di merito e rotali.
Come si evince dalla motivazione, gli Ermellini hanno infatti stabilito che " il Giudice a quo, diversamente da quanto afferma la ricorrente, fornisce una motivazione adeguata e non illogica sulla incapacità psichica dell’uomo, come emergente dalla sentenza ecclesiastica: un disturbo della personalità caratterizzato tra l’altro da rigidezza, intolleranza, difficoltà di espressione degli affetti, a nulla rilevando l’elevato livello culturale e l’attività professionale del soggetto; il disturbo predetto, si presta infatti ad incidere negativamente sulla sfera volitiva e sui processi psico affettivi, rendendolo inidoneo a realizzare un rapporto di comunione e condivisione con il coniuge".
In virtù di quanto sopra esposto, i Giudici di Piazza Cavour hanno ravvisato una incapacità del marito nel proseguire il vincolo matrimoniale e, di conseguenza, la richiesta di annullamento è fondata poichè  si equipara  "la incapacitas psichica assumendi onera matrimonii alla incapacità di intendere e di volere di cui all’art. 120 c.c., in contrasto con l’ordine pubblico italiano edeterminando una violazione dell’art. 797 n. 7 c.p.c. (nella formulazione soppressa, ma ancora operante, in relazione alla delibazione di sentenze ecclesiastiche)."
Si riporta di seguito il testo della sentenza in commento:

martedì 5 giugno 2012

Assegno divorzile e limiti nelle indagini tributarie.

di Fabrizia Gaia Postiglione 


Cassazione civile, sez. I, 22 marzo 2012, n. 4551

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La Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 22 marzo 2012 n. 4551, ha chiarito i limiti alle indagini sul patrimonio del coniuge in relazione alla determinazione dell’assegno divorzile.
Il predetto caso riguarda un uomo divorziato che, dopo aver contratto un nuovo matrimonio, non solo non voleva riconoscere all’ex moglie un aumento dell’assegno ma, adiva il Tribunale per ottenere la riduzione dello stesso.
A supporto della tesi il ricorrente sosteneva che “la sua condizione economica era sostanzialmente peggiorata in quanto si era risposato e aveva avuto un figlio e il nuovo nucleo familiare era interamente a suo carico.”
I coniugi ricorrevano pertanto in Cassazione per vedersi riconoscere i rispettivi diritti.
I Giudici di Piazza Cavour hanno stabilito che per le determinazione dell’ammontare dell’assegno divorzile si possono compiere indagini patrimoniali (come espressamente previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, )avvalendosi della polizia tributaria ma cio’ costituisce una deroga alle regole generali sull'onere della prova.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione ha delineato i limiti della predetta azione stabilendo che il Giudice potrà esercitare il suo potere discrezionale ma questonon può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche”, né può “supplire alla carenza probatoria della parte onerata”e, pertanto, la polizia tributaria potrà essere adita solo per ottenere “informazioni integrative del bagaglio istruttorio già fornito”.
In virtù di quanto sopra esposto si giunge alla conclusione che non solo l’indagine effettuata della polizia tributaria deve essere disposta sulla base di “fatti specifici e circostanziati” ma la parte, inoltre, deve dimostrare che quel rimedio è indispensabile per colmare la lacuna probatoria della sua difesa.
Di seguito si riporta la sentenza della Suprema Corte: